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I maestri di scacchi ci insegnano che una parte essenziale del processo decisionale consiste nel mettere in competizione soluzioni alternative, per poterne meglio catturare pregi e difetti.
Quando si tratta di risolvere un problema, gran parte delle persone tende ad utilizzare la prima intuizione che si materializza in testa, senza andare alla ricerca di altre soluzioni. Questo atteggiamento è ragionevole ed è il modo più efficiente che ha consentito l’evoluzione dell’uomo: non abbiamo il tempo, l’energia e le risorse mentali per effettuare un’analisi approfondita di tutte le problematiche che affrontiamo giorno dopo giorno.
Tuttavia, in presenza di decisioni strategiche di una certa importanza, siano esse personali o di lavoro, la tendenza ad attaccarsi alla prima soluzione disponibile può portare a decisioni non ottimali.
La difficoltà emotiva a mantenere “aperto” un problema
Molto spesso siamo posti di fronte a problemi complessi, dove ci sono molte variabili in gioco e non è possibile stabilire chiaramente le relazioni causa/effetto. Non riusciamo ad adottare un approccio decisionale standard che prevede di effettuare un’analisi costi/benefici delle azioni a nostra disposizione: siamo quindi in difficoltà perché non sappiamo che strada prendere e subiamo la pressione di dover decidere in tempi stretti.
Come ben descritto da Richard Rumelt nel suo libro Good Strategy/Bad Strategy, anche i manager più esperti, in queste situazioni, tendono ad aggrapparsi alla prima idea ragionevole che riescono a generare: questa idea porta immediatamente un grande sollievo psicologico e diventa un punto di riferimento a cui ancorarsi in una situazione di incertezza. Il fatto è che ci potrebbero essere soluzioni migliori a nostra disposizione, se solo ci impegnassimo a ragionare ancora per un pò.
Tuttavia abbiamo una naturale tendenza a cercare di chiudere una situazione problematica prima possibile perché mantenerla “aperta” comporta un ingente dispendio di energie mentali; la ricerca di soluzioni alternative comporterebbe la rinuncia al comfort psicologico derivante dal pensare di aver trovato una strada, uno sforzo addizionale che potrebbe comunque lasciarci a mani vuote.
Inoltre è innaturale e doloroso mettere in discussione le proprie idee, a maggior ragione se le abbiamo appena generate. Per cui una volta avuta un’intuizione, tendiamo a utilizzare il tempo che ci rimane nel cercare di giustificarla piuttosto che nel metterla in discussione.
Tuttavia la capacità di mettere in discussione le proprie valutazioni, di trovare delle alternative per poter confrontare le nostre idee una contro l’altra è una qualità essenziale per i buoni decisori.
“Nel giro di due giorni ho elaborato due piani completamente diversi e ugualmente fattibili. Il fatto è che uno non pianifica e poi cerca di adattare le circostanze al piano. Uno deve cercare di adattare il piano alle circostanze.” (Gen. George Patton)
Il processo decisionale dei campioni di scacchi
La tesi di laurea dello psicologo olandese Adrian de Groot, scritta nel 1946 e pubblicata in inglese nel 1965 con il titolo di Thought and Choice in Chess è considerata lo studio più approfondito mai effettuato sull’analisi del processo decisionale dei campioni di scacchi. Quando era ancora uno studente, Adrian guadagnava qualche soldo lavorando come giornalista di scacchi. Nel 1938, stava seguendo un torneo ad Amsterdam con i migliori 8 giocatori al mondo e, con grande intraprendenza, riuscì a convincere gran parte dei maestri a partecipare agli esperimenti necessari per raccogliere i dati per la sua tesi. Giocatori del calibro di Alekhine, Euwe, Fine, Flohr e Keres fecero parte del campione analizzato da de Groot. Alcuni esperimenti, per esempio quello con Tartakover, furono addirittura condotti sulla nave che nel 1939 trasportò i giocatori verso le Olimpiadi in Argentina, dove lo stesso de Groot giocò per la squadra olandese.
Il protocollo sviluppato dallo psicologo prevedeva che i giocatori fossero posti di fronte a posizioni sconosciute e dovessero pensare a voce alta, descrivendo il ragionamento che stavano compiendo nell’effettuare le varie mosse. Le dichiarazioni dei campioni vennero trascritte e sottoposte ad approfondite analisi statistiche e interpretative.
L’analisi effettuata dimostra che i campioni di scacchi adottano un approccio che de Groot definì approfondimento progressivo (progressive deepening): le possibili mosse vengono valutate a più riprese, soprattutto dopo essere state messe in competizione con quelle alternative.
Nello specifico de Groot valutò che il processo di approfondimento progressivo potesse essere suddiviso in 4 fasi. Durante la fase iniziale di orientamento, i giocatori raccolgono e analizzano tutte le informazioni utili e abbozzano una prima valutazione della posizione. Nella fase di esplorazione vengono analizzati tutti i possibili sviluppi del gioco con l’obiettivo finale di restringere il cerchio a due mosse critiche potenziali. Queste due mosse critiche sono valutate in grande dettaglio durante la fase di investigazione caratterizzata da analisi molto approfondite sui punti chiave delle due strategie. Gran parte delle argomentazioni “registrate” da de Groot in questa fase, vedevano i giocatori impegnati a mettere a confronto le due opzioni per cercare di capire quale delle due mosse fosse migliore rispetto all’altra. Infine, nella fase di prova, i giocatori ricapitolano tutto il percorso decisionale per verificare un’ultima volta, prima di agire, la correttezza della valutazione effettuata.
L’analisi di de Groot dimostra chiaramente come i giocatori di scacchi non agiscono mai sulla prima intuizione ma che anzi una parte essenziale del processo decisionale sia rappresentata dall’individuazione di soluzioni alternative per metterle poi in feroce competizione tra di loro.
Questo approccio è confermato da Bruce Pandolfini, celebre allenatore di grandi campioni e uno dei maggiori divulgatori del mondo degli scacchi. In un’intervista del 1999, Pandolfini afferma che “non si dovrebbe mai giocare la prima buona mossa che ci viene in mente, questo lo fanno solo i principianti”. Occorre mettere questa idea da parte, e chiederci se siamo in grado di individuarne un’altra ancora migliore. Pandolfini ricorda di aver visto Garry Kasparov mettersi letteralmente le mani sotto le gambe per costringersi ad aspettare ancora e valutare più approfonditamente quale mossa scegliere.
“Quando hai una buona idea, cercane una migliore.” (Bruce Pandolfini)
“Per avere una buona idea, prima devi avere un sacco di idee.” (Linus Pauling)
Il pensiero integrativo e la tensione delle idee
Francis Scott Fitzgerald nel saggio “Il crollo” del 1936 ha scritto che “il vero segnale di un’intelligenza superiore è la capacità di mantenere in testa due idee opposte e allo stesso tempo continuare a funzionare”, di fatto allineandosi all’analisi di De Groot sul modo di pensare degli scacchisti.
“Il vero segnale di un’intelligenza superiore è la capacità di mantenere in testa due idee opposte e allo stesso tempo continuare a funzionare.” (F. Scott Fitzgerald)
Il tema è stato ripreso recentemente da Roger L. Martin, in passato rettore della Rotman School of Management dell’Università di Toronto. In uno studio durato più di sei anni, in cui ha intervistato oltre 50 leader delle principali aziende, Martin ha riscontrato come molti di loro condividano un tratto comune e cioè la capacità di mantenere in testa due idee opposte contemporaneamente. Ma non solo: invece che affrettarsi a risolvere il dilemma, sono in grado di gestire creativamente la tensione tra le due idee generandone una nuova che contiene elementi dell’una e dell’altra ma è superiore ad entrambe. Questo processo di analisi e sintesi è stato definito da Martin pensiero integrativo. I pensatori convenzionali, spinti dall’esigenza di semplificazione e certezza, si affrettano ad identificare quale sia la soluzione “giusta” (o la meno sbagliata) e a scartare quella errata. Al contrario i pensatori integrativi, abbracciano la complessità e l’ambiguità, rifiutano di ragionare in termini di “o/oppure” e privilegiano “e/entrambi”, e riescono quindi a valorizzare gli elementi positivi di entrambe le soluzioni arrivando a soluzioni più originali e creative.
Conclusioni
La strategia che dobbiamo applicare quando ci troviamo di fronte ad un problema complesso richiede la forza e la tenacia emotiva per riuscire a mantenere “aperto” il problema senza cedere all’esigenza di semplificazione e certezza che ci porterebbe a chiuderlo alla prima idea valida che ci viene in mente. Come Kasparov che si metteva le mani sotto le gambe per obbligarsi a non fare subito la mossa, dobbiamo rinunciare al conforto psicologico di pensare di aver trovato una soluzione per andare alla ricerca di opzioni alternative; come suggerito da Fitzgerald dobbiamo riuscire a mantenere almeno due idee opposte in testa e continuare lo stesso a funzionare. Solo dal confronto tra idee diverse riusciamo realmente ad individuare i punti di forza e di debolezza di ciascuna e potremmo essere in grado di trovarne addirittura una migliore, che sia in grado di mettere insieme gli elementi positivi delle nostre idee di partenza.
Bibliografia:
Gobet, Fernand. Adrian de Groot: Marriage of two Passions. A Personal Summary. ICGA Journal, December 2006.
Martin, Roger L. How Successful Leaders Think. Harvard Business Review, July 2007.
Martin, Roger L e Riel, Jennifer. The Four Stages of Integrative Thinking. Rotman Management Magazine, Spring 2014.
Muoio, Anna. All the Right Moves. Fast Company, April 1999.
Rumelt, Richard. Good Strategy/Bad Strategy: The Difference and Why it Matters. Profile Books, 2013.