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Scopri come i princìpi primi hanno generato la produzione di massa delle automobili e il salvataggio degli astronauti dell’Apollo 13.
Il metodo dei princìpi primi è uno schema di ragionamento “profondo” che prevede di scomporre un problema nei suoi elementi costitutivi, nelle sue verità indiscutibili. Grazie a questo processo di decostruzione acquisiamo maggiore conoscenza, comprendiamo le diverse parti in gioco e come interagiscono tra di loro: l’obiettivo è rimetterle insieme in maniera diversa, originale e soprattutto più efficace. Pensiamo ad una costruzione di Lego: quella che vediamo non ci soddisfa. Così decidiamo di smontarla completamente; studiamo attentamente tutti i pezzi per capire come sono fatti e come si possono incastrare tra loro; poi decidiamo di riassemblare tutto partendo da zero, senza farci condizionare dalla costruzione che abbiamo visto all’inizio: questa è l’essenza del metodo dei princìpi primi.
Il metodo affonda le sue radici nel pensiero di Aristotele che definì i princìpi primi “come i mattoncini fondamentali della conoscenza”. Trova poi la sua applicazione pratica con Euclide che costruì tutta la sua geometria a partire da cinque assiomi, cinque princìpi incondizionatamente veri che non possono essere messi in discussione. Nel rinascimento fu Cartesio a rimettere al centro il metodo dei princìpi primi con l’applicazione del suo celebre “dubbio”, finalizzato a mettere in discussione tutto per arrivare alle verità incontrovertibili.
Questo modello mentale antico e potente è tornato alla ribalta recentemente grazie ad Elon Musk: Musk ha più volte affermato di aver applicato i princìpi primi per generare le idee che hanno permesso la creazione e il successo di Space X e Tesla.
Prima di Musk però, c’è stato un altro esempio di applicazione del metodo che ha avuto un impatto dirompente nell’epoca moderna.
Henry Ford e la produzione di massa
Quando nel 1908 la Ford introdusse il modello T, la metodologia di produzione non era diversa da quella utilizzata da altri costruttori: in sostanza le auto venivano costruite a mano una ad una, ed erano quindi un oggetto esclusivo per famiglie benestanti che potevano permettersi di pagare un prezzo elevato.
Il grande sogno di Henry Ford era invece quello di “mettere il mondo sulle ruote” e di costruire un’auto che fosse accessibile a tutti. Per questo mise in discussione il modo di lavorare dei suoi contemporanei e si chiese: “quale sarebbe il costo di un’auto se la riducessi alle sue componenti base e trovassi un modo più intelligente per rimetterle insieme?”. Questa domanda, figlia dell’applicazione del metodo dei princìpi primi, fu l’inizio della produzione di massa delle auto.
Ford e i suoi ingegneri trovarono il modo di “suddividere” la macchina in tante piccole parti che potessero essere prodotte in grandi quantità ed essere facilmente integrate tra loro e quindi gestite anche da operai non specializzati (la stessa logica del Lego). Con la successiva introduzione nel 1913 della catena di montaggio, cioè un modo efficiente per rimontare le parti suddiviso in 84 step, la Ford riuscì ad abbattere i tempi (da 12 ore a 1 ora e 33 minuti) e i costi di produzione, raddoppiare il salario giornaliero degli operai a $5, produrre un prodotto superiore alla concorrenza e generare profitti.
In quegli anni la Ford riusciva a produrre 2 milioni di Modello T all’anno per un prezzo di $260, decisamente abbordabile visto che il salario giornaliero dei suoi operai era di $5: era appena partita una nuova rivoluzione industriale, nata dall’applicazione del metodo dei princìpi primi.
Princìpi primi vs ragionamento per analogia
Il metodo dei princìpi primi non è il nostro meccanismo mentale di default: pensare in profondità richiede infatti un impegno dedicato e consapevole. Quando affrontiamo un problema di solito ragioniamo per analogia: cerchiamo di capire cosa hanno fatto altri in contesti simili e lo duplichiamo, magari apportando qualche piccola modifica o miglioramento per adattare la soluzione esistente al nostro contesto. Ragionare per analogia è una modalità veloce, che richiede pochi sforzi mentali e che funziona nella gran parte delle situazioni.
Tuttavia ci sono situazioni in cui le soluzioni esistenti non sono applicabili o non sono efficaci; problematiche nuove con le quali nessuno si è ancora confrontato: in questi casi il metodo dei princìpi primi è l’unica arma a nostra disposizione per trovare risposte innovative e radicalmente nuove.
Il metodo parte mettendo in discussione le assunzioni esistenti, non focalizzandosi su quello che esiste ma cercando di capire quello che è vero e possibile. Il processo di sfida delle assunzioni esistenti avviene applicando il metodo del “dubbio cartesiano” e ponendo domande come: siamo sicuri che sia vero? Cosa deve accadere perché sia vero? Quali evidenze abbiamo a supporto? Come possiamo verificarle o falsificarle? Possiamo ottenere lo stesso risultato in un altro modo? L’obiettivo è scavare a poco a poco in profondità, rimuovendo gli strati superficiali fino ad arrivare ai concetti che non possono essere messi in discussione: i princìpi primi del problema che stiamo affrontando. Questo processo di decostruzione “dubbiosa” serve per chiarirci le idee, capire le relazioni tra le cose, cercare evidenze ulteriori, valutare alternative, esaminare le conseguenze. In sostanza ci serve per capire veramente di cosa stiamo parlando o come direbbe Feynman ci rendiamo conto della differenza tra “il conoscere il nome di una cosa e conoscere una cosa.”
Questo processo di decostruzione richiede necessariamente di distaccarsi dalle soluzioni esistenti, dalle idee pregresse e può essere difficoltoso per chi è esperto della materia che si sta analizzando: per questo è spesso molto utile che il processo sia effettuato come una sorta di dialogo socratico insieme ad un’altra persona non esperta del problema. Questa persona ci porrà delle domande mettendo in discussione tutte le nostre affermazioni. Pensiamo a quando i bambini ci tempestano di domande: dopo il terzo “perché” iniziamo già a vacillare e quasi sempre rispondiamo “perchè è così!”. Ecco: se nel processo di discussione “socratica” non abbiamo altro da rispondere oltre a “perchè è così” vuol dire che l’assunzione che stiamo cercando di giustificare non è solida o non ne sappiamo abbastanza: dobbiamo scavare ancora per identificare il principio primo.
Nei bambini il metodo dei principi primi è la modalità naturale di pensiero: per questo chiedono così tanti “perchè”. Vogliono andare a fondo, capire come funzionano le cose, devono costruire da zero il proprio bagaglio di conoscenze: non hanno ancora l’esperienza e la capacità di ragionare per analogia. Con la crescita questa tensione a poco a poco si placa. La scuola potrebbe e dovrebbe essere un mezzo potente per mantenere il focus sui princìpi primi: oltre ad apprendere a memoria date e luoghi, i nostri ragazzi dovrebbero imparare a ragionare, a scomporre e ricomporre le cose con la loro testa. Non è incredibile che nessuno gli insegni “come” ma solo “cosa” studiare?
“La scienza è un modo di pensare prima che un insieme di conoscenze.” (Carl Sagan)
I princìpi primi in pratica
John Boyd (1927 – 1997) è stato il migliore pilota di caccia dell’aeronautica americana e probabilmente il più grande stratega militare del secolo scorso. Negli scritti a cui si è dedicato negli ultimi anni della sua vita si trova un esempio illuminante del metodo dei princìpi primi.
Immaginiamo di avere tre oggetti: un motoscafo con degli sci d’acqua; un carroarmato e una bicicletta. Cosa possiamo creare a partire da questi tre cose? Provare a pensarci un attimo prima di proseguire.
Smontando tutti i pezzi ci sono infinite possibili ricombinazioni. Una però è particolarmente efficace: prendendo il motore e gli sci dalla barca, i cingoli dal carro e il manubrio e il sellino dalla bicicletta possiamo costruire…una motoslitta!!
Questo semplice esempio ci mostra il processo di distruzione e ricostruzione tipico dei princìpi primi.
“Houston abbiamo un problema”
Il metodo dei princìpi primi è ben conosciuto tra gli ingegneri e scienziati della NASA. Gene Krantz è stato il responsabile dei programmi Gemini e Apollo, inclusa la missione Apollo 11 che portò i primi uomini sulla luna, ed è considerato uno degli eroi della storia aerospaziale americana. Krantz, consapevole che le missioni avrebbero comportato problemi impossibili da prevedere e che non potevano essere risolti ragionando per analogia, pretese che ogni spedizione dovesse prevedere a terra una replica esatta dei contenuti della navicella. Gli ingegneri e gli scienziati avrebbero avuto accesso agli stessi sistemi di navigazione, vestiti, accessori, strumenti e qualsiasi tipo di oggetto che gli astronauti avevano all’interno della navicella. In sostanza Krantz aveva capito che occorreva “scomporre” l’interno della navicella nei suoi princìpi primi: se fosse successo un qualsiasi imprevisto, gli ingegneri a terra avrebbero dovuto ragionare partendo proprio da quegli elementi per individuare una soluzione che potesse poi essere implementata dagli astronauti nello spazio.
Ed è proprio grazie a questa intuizione che Krantz e il suo team riuscirono a trovare il modo per riportare a terra i tre astronauti della missione Apollo 13 in quello che può essere considerato una degli esempi più incredibili di problem solving della storia moderna. Gli ingegneri nella base a Houston rovesciarono sul tavolo della sala riunioni tutti gli oggetti presenti sulla navicella e trovarono il modo di costruire un prototipo di filtro che fu replicato dagli astronauti nello spazio.
I principi primi e i mercati finanziari
Ragionare per princìpi primi ci fa capire la differenza tra il costruire una strategia basata su evidenze solide e indiscutibili oppure su opinioni. Le opinioni a differenza dei princìpi primi, non sono indiscutibili e sono vere solo a determinate condizioni.
Un classico esempio sono i mercati finanziari. Dire che quest’anno il mercato azionario salirà, o che i tassi di interesse scenderanno equivale a formulare un’opinione: gran parte delle previsioni formulate dagli esperti sui mercati o sui titoli non sono altri che opinioni. Costruire una strategia finanziaria solo su opinioni può essere molto rischioso: è ovvio che a vari livelli qualche scommessa può essere contemplata, ma dovremmo anche cercare di ancorarci a qualcosa di più solido. Dovremmo individuare qualche principio primo che valga per i mercati finanziari.
Facciamo tre esempi molto semplici.
- Il tasso di interesse composto
Albert Einstein definì il tasso di interesse composto “la più grande scoperta matematica”: con la capitalizzazione dei rendimenti, il denaro si “mette al lavoro” per generare altro denaro, di fatto determinando un profilo di crescita esponenziale. Questa proprietà matematica è vera sempre.
Per capire l’impatto della capitalizzazione del rendimento facciamo un esempio. Dobbiamo investire €10.000. Abbiamo due opzioni: l’investimento A genera un rendimento annuale del 5%, mentre B ha rendimento del 6%.
I risultati sono riportati nella tabella sottostante:
L’extrarendimento cresce più che proporzionalmente all’aumentare dell’orizzonte temporale: dopo 20 anni, un 1% di differenziale genera €5.500 in più, pari al 55% dell’investimento iniziale. Ne consegue che su orizzonti lunghi, scostamenti anche minimi nei rendimenti possono generare enormi differenziali di performance.
Questo principio primo ha impatto ad esempio sulla differenza di performance tra prodotti a distribuzione vs capitalizzazione oppure su prodotti simili ma con costi differenti. Proprio dall’osservazione dell’impatto importante sul lungo periodo di piccole differenze di costo, Jack Bogle ha fondato Vanguard, la società di gestione del risparmio specializzata in fondi indicizzati e ETF, prodotti che hanno costi significativamente inferiori rispetto agli altri fondi di investimento. Questa semplice intuizione si è rivelata dirompente, proprio perché ancorata su un principio primo: Vanguard è oggi il secondo asset manager per dimensione a livello globale, pur non fornendo una gestione attiva e puntando tutto sulla riduzione dei costi a favore dei clienti.
“L’industria dei fondi è l’unico settore in cui dove meno paghi e più ottieni.” (Jack Bogle)
- La zavorra della volatilità
Per massimizzare l’effetto della capitalizzazione nel lungo periodo dobbiamo però tenere in considerazione anche un altro principio, derivante dal fatto che la performance necessaria per recuperare da una perdita cresce esponenzialmente all’aumentare della perdita. Una perdita del 10%, del 20% e del 30% richiedono rispettivamente una performance dell’11%, del 25% e del 43% per tornare in pari; se perdiamo il 50% dobbiamo raddoppiare per tornare dove eravamo prima (vedi grafico).
Per capire come questa regola impatta sulle performance di lungo periodo consideriamo 3 investimenti su un orizzonte di 10 anni: hanno rendimenti annuali caratterizzati da una media identica, pari al 2%, ma sono caratterizzati da diversi livelli di volatilità (volatilità = variazione dei rendimenti).
Alla fine del periodo, l’investimento 1, con una volatilità del 4,2% ha ottenuto una performance complessiva del 21%. L’investimento 2 con volatilità doppia, una performance del 18,2% e l’investimento 3 con una volatilità tripla, un rendimento del 13,7%. Si noti che l’effetto negativo della volatilità aumenta esponenzialmente all’aumentare della stessa.
Ne consegue un altro principio fondamentale degli investimenti definito zavorra della volatilità (“volatility drag”): a parità di condizioni, l’incremento di volatilità ha un effetto negativo sul rendimento di un investimento. O visto al contrario, per essere compensato per un incremento del rischio, devo richiedere un incremento più che proporzionale del rendimento.
Questo è un principio che devo tenere bene a mente quando decido la composizione dei miei investimenti.
- Il rendimento del mercato azionario
Da cosa è determinata la performance del mercato azionario? Proviamo a ragionare per princìpi primi e scomporre il rendimento nelle sue diverse componenti:
Performance mercato azionario = crescita (nominale) dei profitti aggregati delle aziende + dividend yield aggregato + variazione nelle valutazioni
La crescita nominale dei profitti non può discostarsi nel lungo periodo da quella dell’economia. Perché? I profitti aziendali sono una componente del PIL: le due crescite devono necessariamente essere allineate nel lungo periodo. Quindi nel lungo periodo la crescita dei profitti è piuttosto stabile e allineata a quella dell’economia mentre nel breve periodo è soggetta ad ampia volatilità a seconda delle diverse fasi del ciclo economico.
I dividendi forniscono invece un contributo piuttosto stabile e positivo sia nel breve periodo che nel lungo periodo.
Infine, la variazione delle valutazioni, cioè quanto gli individui sono disposti a pagare i profitti, ha un impatto pari a zero nel lungo periodo (la valutazioni non possono crescere o diminuire per sempre ma fluttueranno costantemente in un range) ma è l’elemento determinante nel breve. Le valutazioni sono guidate in prevalenza dalle aspettative e dall’emotività degli investitori: possono salire molto in periodi di ottimismo e crollare in periodi di crisi di fiducia. Per cui, anche in presenza di profitti e dividendi stabili, le performance azionarie possono essere molto variabili nel breve periodo.
La situazione può essere riassunta nella tabella 4:
Ne consegue un altro principio primo: il rendimento di breve periodo delle azioni è dominato dalla componente variabile dall’emotività degli investitori e quindi è difficilmente prevedibile mentre nel lungo periodo è guidato da componenti più stabili come profitti e dividendi. Questo principio primo è alla base della filosofia di Warren Buffett che investe su un orizzonte temporale di lungo periodo sfruttando a proprio favore l’emotività di breve degli investitori.
Se guardiamo alle performance annualizzate del mercato azionario americano su diversi orizzonti temporali nel periodo 1871-2019, possiamo vedere la messa a terra di questo concetto: le probabilità di performance positive aumentano all’allungarsi dell’orizzonte temporale passando dal 53% sul singolo giorno (quasi come tirare una monetina), al 72% su un anno fino ad arrivare al 100% su 15. In sostanza, investendo su un orizzonte di 15 anni sul mercato USA negli ultimi 150 anni non si sono mai avuti rendimenti negativi.
Dall’applicazione di questo principio primo si intuisce quindi come l’orizzonte temporale sia un fattore determinante per l’esposizione all’azionario nel proprio portafoglio.
Se incorporiamo questi 3 principi primi nella definizione della nostra strategia possiamo già considerarci degli investitori avanzati senza essere esperti di mercati finanziari o dover per forza prevedere dove andranno i mercati.
Conclusioni
Il metodo dei princìpi primi ha uno schema molto chiaro: parte prendendo in considerazione ciò che è vero e non ciò che esiste. Prevede una fase di decostruzione, durante la quale dobbiamo sfidare le assunzioni esistenti, e cercare di discriminare tra opinioni vere solo a determinate condizioni, e princìpi primi, cioè i mattoncini base che non possono essere messi in discussione. In questa prima fase ci rendiamo conto di ciò che è importante, vero, solido. Finita la prima fase, inizia quella creativa che prevede la ricostruzione a partire dai princìpi primi.
E’ ovvio che si tratta di un processo difficile e cognitivamente dispendioso. Ma è il prezzo da pagare per capire le cose in profondità e aspirare a soluzioni differenti.
Bibliografia:
Malkiel, Burton G. A Random Walk Down Wall Street. Norton, 2012.
Pearson, Taylor. The Ultimate Guide to the OODA Loop. taylorpearson.me.
Shives W. David. How Design Thinking Saved the Apollo 13 Astronauts. IRIS Health Solutions, 2018.
Siegel, Jeremy J. Stocks for the Long Run. McGraw-Hill, 2002.
Tervooren, Tyler. Use First Principles Thinking to Solve Impossible Problems. Riskology.
Verkerk, Alexander e Grass, Kapcer. First Priciples Thinking for Societal Problem-Solving. Factory for Innovative Policy Solutions, 2019.