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Nel valutare il comportamento nostro e degli altri sopravvalutiamo il ruolo delle attitudini personali e a trascuriamo l’impatto del contesto.
Le circostanze in cui ci troviamo influenzano i nostri pensieri e le nostre azioni molto più di quello che pensiamo. Al contrario le attitudini personali, come il carattere, i tratti distintivi, le preferenze, le abilità e i gusti, hanno molto meno importanza di quanto tendiamo normalmente ad assumere.
Tendiamo generalmente a sottovalutare o a trascurare completamente gli effetti di condizionamento derivanti dalla situazione: questa cecità al contesto (“context blindness”) ci porta ad attribuire troppa importanza all’influenza delle attitudini personali sul comportamento degli individui. La sottovalutazione del contesto e la sovrastima delle attitudini personali è uno degli errori più studiati nel campo della psicologia sociale ed è stato definito dallo psicologo Lee Ross errore fondamentale di attribuzione (fundamental attribution error).
Questo errore è ben presente quando valutiamo i nostri stessi pensieri e comportamenti. Tuttavia è sicuramente più pervasivo quando giudichiamo il comportamento degli altri: è molto difficile per noi decifrare le circostanze in cui si trovano ad agire le altre persone ed è quindi molto più semplice ed immediato pensare che le azioni siano la conseguenza di una precisa attitudine personale.
Il buon samaritano dipende dalle circostanze
A partire dagli anni ‘60 gli psicologi sociali hanno condotto numerosi studi per verificare la diffusione dell’errore fondamentale di attribuzione.
In uno dei primi esperimenti condotto nel 1968, gli psicologi hanno simulato una situazione di emergenza in cui alcuni individui fingevano di avere un malore in luoghi pubblici, per verificare il comportamento dei passanti. La probabilità che un passante offrisse aiuto alla finta vittima risultò largamente dipendente dalla presenza di altre persone. Se il passante si rendeva conto di essere solo, cercava quasi sempre di aiutare. Se c’era un altro testimone (anche in questo caso un complice dell’esperimento), le probabilità di aiutare si riducevano fortemente fino a quasi completamente azzerarsi in presenza di molti testimoni. La propensione all’aiuto non dipendeva dal carattere ma dalle circostanze, in questo caso determinate o meno dalla presenza di altre persone.
Questa tendenza fu confermata da un successivo studio del 1973: gli psicologi condussero un esperimento su alcuni studenti di teologia dell’università di Princeton a cui fu indicato (uno per volta) di recarsi in un altro edificio dell’università per presentare un sermone sul Buon Samaritano. Gli studenti furono istruiti sul percorso da seguire per raggiungere l’edificio del sermone: ad alcuni fu detto che avevano ancora abbastanza tempo mentre ad altri fu indicato di affrettarsi perchè erano già in ritardo. Nel percorso indicato ognuno degli studenti incontrò un individuo, interpretato da un attore, che seduto per terra con il capo chino gemeva e tossiva. Circa due terzi degli studenti che avevano tempo si offrirono per aiutare il sofferente; al contrario solo uno su dieci di quelli che erano in ritardo si fermarono.
Se fossimo stati presenti alla scena, non avremmo potuto sapere che la disponibilità di tempo era stata il fattore decisivo nel determinare o meno il comportamento da Buon Samaritano. Avremmo semplicemente giudicato alcuni studenti come caritatevoli e altri come egoisti, estrapolando in maniera errata attitudini personali dall’osservazione di un comportamento.
“Le persone tendono a sottovalutare quanto i comportamenti siano influenzati dai cambiamenti delle situazioni.” (Lee Ross)
“Avete mai notato che tutti quelli che guidano più piano di noi sono degli idioti e tutti quelli che vanno più forte sono dei pazzi?” (George Carlin)
L’influenza del ruolo sulla percezione
Nel 1985 lo psicologo delle organizzazioni Ronald Humphrey condusse un esperimento con l’obiettivo di ricreare il contesto lavorativo di un ufficio. I partecipanti furono suddivisi casualmente tra i due ruoli di “manager” e di “impiegato”. I manager dovevano coordinare il lavoro degli impiegati e svolgere compiti strategici e organizzativi; gli impiegati avevano invece poca autonomia ed erano utilizzati in lavori ripetitivi e a basso valore aggiunto. Al termine dell’esperimento, della durata di circa due ore, fu chiesto ai partecipanti di compilare un questionario di valutazione su se stessi e su tutti gli altri partecipanti sulla base di alcune caratteristiche personali come leadership, intelligenza, dedizione al lavoro, assertività e disponibilità all’aiuto. Per tutte queste attitudini, i manager diedero voti più alti agli altri manager rispetto agli impiegati. Lo stesso accadde per gli impiegati che, a parte la dedizione al lavoro, diedero voti più alti per tutte le caratteristiche personali ai manager rispetto ai loro colleghi impiegati. Il risultato è abbastanza incredibile: il semplice fatto di occupare il ruolo di manager fa percepire le persone più smart e intelligenti anche in una situazione in cui lo stesso ruolo è stato attribuito casualmente solo un paio di ore prima.
L’esperimento rivela come le persone abbiano grande difficoltà a leggere oltre le apparenze e a riconoscere l’importanza dei ruoli sociali nel condizionare i comportamenti: non siamo in grado di discriminare tra le caratteristiche del ruolo e le attitudini personali di chi lo occupa.
La difficoltà a valutare le persone
L’errore fondamentale di attribuzione ci mette costantemente in difficoltà: ci fidiamo delle persone sbagliate e al contrario evitiamo persone che sono assolutamente a posto, selezioniamo candidati che non sono poi così competenti; il tutto perché non siamo in grado di riconoscere l’impatto delle circostanze sul comportamento delle persone.
Nello specifico, tendiamo ad assumere che il comportamento futuro tenda a riflettere le attitudini personali che supponiamo di aver inferito osservando i comportamenti presenti.
Gli psicologi Ziva Kunda e Richard Nisbett hanno condotto un esperimento molto interessante che dimostra come si tenda a dare troppa importanza a singole osservazioni sulle attitudini delle persone.
Gli studiosi hanno cercato di capire come un campione di studenti universitari valutavano la correlazione tra comportamenti presenti e futuri, quando questi comportamenti erano connessi ad abilità, come i risultati nei test di ortografia e nel basket, oppure quando esprimevano attitudini personali, come cordialità e onestà. Nello specifico le domande che furono sottoposte erano di questo tipo:
“Se Andrea riceve un voto più alto di Giovanni nel test di ortografia del primo mese, qual è la probabilità che riceva un voto più alto anche al terzo mese?”; “Se Giulia realizza una media punti più alta di Elisa nelle prime venti partite di basket della stagione, qual è la probabilità che segni più punti in media nelle prossime venti?”; “Se Andrea sembra più cordiale di Giovanni alla prima occasione in cui lo hai incontrato, qual è la probabilità che sarà più cordiale anche al secondo incontro?”; e infine, “Se Giulia si comporta in modo più onesto di Elisa nelle prime venti occasioni in cui le hai osservate (mentre per esempio giocavate a carte, dividevate il conto al ristorante, parlavate dei voti a scuola e così via), qual è la probabilità che Giulia si comporti in modo più onesto anche nelle prossime venti occasioni?”.
I risultati dei test, riportati nel grafico 1, hanno evidenziato che gli studenti erano stati molto bravi nel valutare i comportamenti relativi ad abilità e soprattutto erano stati in grado di applicare la legge dei grandi numeri. Avevano infatti giudicato come l’osservazione di un’abilità, sia essa nell’ortografia o nel basket, fosse molto più affidabile come previsore per il futuro se effettuata su un campione più ampio rispetto alla singola osservazione (nell’esempio precedente avevano ritenuto molto più probabile che Giulia realizzasse più punti di Elisa nelle prossime venti partite di basket rispetto al fatto che Andrea prendesse un voto più alto di Giovanni anche nel test del terzo mese).
Al contrario le valutazioni sulle attitudini personali erano risultate totalmente inaccurate. In particolare gli studenti avevano valutato che se una persona era stata onesta o cordiale in una situazione lo sarebbe stato quasi sicuramente anche in quella successiva, stimando una correlazione pari 0,8 tra i due eventi: in realtà vari studi hanno dimostrato che la correlazione tra comportamenti che riflettono una particolare attitudine in due situazioni differenti è molto bassa, tipicamente pari a 0,1 e mai più alta di 0,3.
L’errore fondamentale di attribuzione ci porta quindi a trascurare la legge dei grandi numeri quando si tratta di valutare le attitudini personali. Pensiamo di poter trarre informazioni rilevanti dall’osservazione di un piccolo campione di comportamenti perché trascuriamo il ruolo del contesto e pensiamo quindi che il comportamento in una determinata situazione sia un buon predittore di quello in altre situazioni, potenzialmente molto differenti. Purtroppo, come dimostrano gli studiosi, siamo completamente fuori strada: il fatto che il collega si sia dimostrato cordiale al party aziendale di giovedì sera non significa che sarà necessariamente cordiale alla riunione di lunedì mattina. Teniamolo bene a mente se vogliamo evitare brutte sorprese.
Maggiore attenzione alla situazione
L’errore fondamentale di attribuzione crea delle distorsioni importanti quando si tratta di valutare il comportamento nostro e soprattutto quello delle altre persone. Dobbiamo quindi necessariamente adottare delle cautele:
- occorre prestare maggiore attenzione al contesto: questo incrementerà la probabilità di individuare quei fattori “situazionali” che possono avere avuto un impatto significativo sui comportamenti; particolare attenzione deve essere posta ai fattori di condizionamento sociale. Osservare come questi fattori influiscono sul comportamento degli altri ci può portare a scoprire come gli stessi fattori possono avere impatto anche su di noi;
- non pensare che il comportamento di una persona in una determinata situazione possa essere predittivo del suo comportamento in situazioni future e non assumere che quella persona abbia necessariamente quell’attitudine o quella preferenza che sembrerebbe aver prodotto quel singolo comportamento. Anche per le attitudini personali vale la legge dei grandi numeri, ossia è possibile inferire la vera “attitudine” solo dopo averla osservata un numero elevato di volte.
Bibliografia:
Nisbett, Richard. Mindware: Tools For Smart Thinking. Penguin Books, 2016.