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Phil Jackson ha vinto 11 titoli NBA adottando un sistema di gioco che ha consentito di valorizzare al massimo il lavoro del team.
Ogni squadra, gruppo musicale, team di lavoro ha bisogno di uno schema, uno spartito, un sistema per valorizzare e coordinare il contributo dei fuoriclasse e dei mediani, dei solisti e degli accompagnatori, dei creativi e degli operativi. Per Phil Jackson questo sistema era il Triangolo Offensivo.
Phil Jackson e il Triangolo Offensivo
Phil Jackson è stato probabilmente il più grande allenatore di basket di sempre, quello che ha vinto più titoli NBA: 6 con i mitici Chicago Bulls negli anni ‘90 e 5 con i Los Angeles Lakers nei dieci anni successivi. Soprattutto, ha allenato il più grande, Michael Jordan e uno dei più grandi, Kobe Bryant, oltre ad altri giocatori fortissimi come Shaquille O’Neal e Scottie Pippen.
Quando nel 1987 arrivò ai Chicago Bulls come assistant coach, il suo collega Tex Winter gli insegnò un schema chiamato Triangolo Offensivo. Tex aveva appreso il sistema da studente all’università della Southern California sotto la guida del leggendario allenatore Sam Barry e lo aveva perfezionato nelle sue esperienze da allenatore nel basket universitario e in NBA.
Phil si innamorò subito del sistema perché era perfettamente allineato con i valori di altruismo e mindfulness che aveva approfondito negli studi sul Buddhismo Zen e sulla religione dei nativi americani: il Triangolo Offensivo diventò il marchio di fabbrica del gioco e dei successi dei Chicago Bulls di Michael Jordan e dei Los Angeles Lakers di Kobe Bryant.
La chiave del Triangolo è che tutti i cinque giocatori si devono muovere in maniera coordinata in risposta a come si posiziona la difesa avversaria. L’idea quindi non è attaccare con uno schema predefinito, ma di “leggere” come si muovono gli avversari e reagire di conseguenza: se per esempio la difesa si concentra su Jordan su un lato del campo, si aprono tutta una serie di opzioni sull’altro lato che possono essere sfruttate. Il sistema favorisce quindi un processo continuo di problem solving di gruppo.
Quello che piaceva a Phil era che il triangolo era un modo per coinvolgere tutti e cinque i giocatori contemporaneamente, attribuendo a ciascuno un ruolo determinante, indipendentemente dal fatto che tirasse o meno, e stimolava un elevato livello di creatività all’interno di una struttura di gioco chiara e ben definita. Il sistema era altamente imprevedibile per gli avversari: come ben spiegato da Kobe in un’intervista “la nostra squadra è un problema per gli avversari perché non capiscono cosa faremo. Il motivo? Perché non lo sappiamo neanche noi. In ogni momento ognuno di noi legge e reagisce a quello che fanno gli altri. Siamo una grande orchestra.” Phil Jackson pensava che il Triangolo fosse in grado di generare il “flow” tipico dei concerti jazz dove ogni componente del gruppo ha il suo ruolo ma nessuno sa dove la musica ti può portare. Quello che ripeteva sempre a Jordan e Kobe era infatti “non forzare il gioco, aspetta che il gioco venga da te.”
Ovviamente il Triangolo, essendo un sistema basato sull’altruismo e sul coinvolgimento di tutti i giocatori, era un po’ indigesto alle superstar come Jordan e Bryant, che lo vedevano come un ostacolo al loro talento: “perché dovremmo passare la palla, se possiamo fare canestro da soli?”. Tuttavia anche Jordan (quasi subito) e Kobe (con un po’ più di fatica) si convertirono al sistema quando si resero conto che incrementava le probabilità di vittoria della squadra e, fattore non trascurabile, migliorava anche le prestazioni individuali perché le difese non dovevano concentrarsi solo su di loro.
Il sistema come strumento di apprendimento
Il sistema consentiva di strutturare il lavoro come un processo di apprendimento dove ogni giocatore, da Michael e Kobe fino a quelli meno talentuosi avevano qualcosa da apprendere, perfezionare e migliorare partita dopo partita. In questo modo Jackson poteva criticare i giocatori senza che si sentissero attaccati direttamente perché il focus veniva spostato dalla performance individuale alla modalità di interazione con il sistema: e questo non era una cosa di poco conto considerata la suscettibilità alle critiche di molti giocatori NBA.
Il processo di apprendimento collettivo rafforzava la relazione tra i giocatori, perché identificava uno scopo superiore e li trasformava in leader. Invece che criticare le performance dei compagni, i giocatori incominciarono a confrontarsi tra di loro su come migliorare l’applicazione del sistema, creando quella spirito di gruppo necessario per arrivare alla vittoria.
“Perché la forza del branco è il lupo, e la forza del lupo è il branco.” (Rudyard Kipling)
Il Triangolo infine offriva ai giocatori qualcosa a cui ancorarsi nei momenti di maggiore pressione, soprattutto se non avevano il talento di Michael e Kobe. Quello che dovevano fare era concentrarsi sul ruolo all’interno del sistema sapendo che questo avrebbe garantito più opportunità per la squadra.
Stimolare il “think power” del gruppo
Phil credeva fermamente nel dare a ciascun giocatore la libertà di trovare il proprio ruolo all’interno del sistema piuttosto che imporlo dall’alto. L’obiettivo era infatti quello di creare un ambiente dove i giocatori potessero crescere come individui ed esprimere se stessi creativamente all’interno di un team. Come ben descritto da Derek Fisher, uno dei protagonisti delle vittorie con i Lakers, “l’obiettivo dei coach era quello di definire delle linee guida che ci consentissero di giocare a basket insieme come un gruppo. Ma poi facevano un passo indietro e si aspettavano che ciascuno trovasse la sua strada da solo: era un modo sorprendente di creare un’organizzazione senza sovraorganizzare”. Fu proprio quando trovarono il loro ruolo all’interno del sistema, che Michael e Kobe si trasformarono in leader carismatici e cominciarono a far crescere a dismisura anche le performance dei propri compagni.
“Il vero segno di un campione è quanto rende più forti i suoi compagni.” (Red Holzman)
Nell’NBA gran parte dei giocatori si aspettano che sia il coach a dirgli cosa fare o a indicare una giocata particolare: questa però non era la modalità di Phil Jackson. Jackson voleva stimolare la capacità di pensiero autonomo di ogni giocatore in modo tale che fosse in grado di prendere decisioni difficili nei momenti chiave. Se gran parte degli allenatori chiamano un time-out quando la squadra subisce un parziale di 6 – 0, Phil lasciava che la partita andasse avanti per costringere i propri giocatori a trovare una soluzione da soli. Questo atteggiamento applicato nel tempo incrementò la solidarietà della squadra e contribuì a sviluppare quello che Micheal Jordan definì “team’s collective think power”, cioè il potere decisionale del gruppo. In questo modo il gruppo acquisì una sorta di coscienza collettiva, un’identità superiore alla somma dei singoli giocatori.
“Vincere richiede talento, ripetersi richiede carattere.” (John Wooden)
Avere un sistema a cui fare riferimento consente anche di non porre un focus eccessivo sul risultato. Secondo Phil, essere ossessionati dalla vittoria è controproduttivo perché ti fa perdere il controllo delle emozioni. Ci sono un sacco di cose imprevedibili in una partita di basket: per questo occorre mantenere il focus su quello che si può controllare, sul creare le condizioni per il successo. Se giochi nel modo giusto, i giocatori sono motivati e il successo è il risultato più probabile.
La lezione del triangolo
L’esperienza di Phil Jackson ci offre alcuni spunti di riflessione interessanti per la gestione delle dinamiche all’interno dei team aziendali:
- Uno dei compiti più importanti del manager è quello di individuare un sistema, una modalità organizzativa e di processo che definisca le linee guida di interazione tra i membri del team. Tutti devono sentirsi coinvolti nel sistema, anche i Micheal Jordan o Kobe Bryant della situazione.
- Il ruoli all’interno del sistema non devono essere calati dall’alto ma dovrebbero assecondare le caratteristiche, gli interessi e le aspirazioni dei singoli. Questo favorisce la motivazione, la creatività e la crescita individuale dei membri del gruppo e li spinge a contribuire al buon funzionamento del sistema.
- Una volta definite le linee guida e i ruoli, occorre responsabilizzare il team, cercando di far emergere il “think power” del gruppo, la capacità decisionale collettiva. Così come durante un time-out Jackson lasciava prima discutere i suoi giocatori, durante le riunioni il manager dovrebbe far emergere le opinioni di tutti e favorire il confronto: in questo modo il gruppo potrebbe arrivare alla decisione finale senza che il manager debba necessariamente intervenire.
- Il sistema dà l’opportunità di organizzare il lavoro come un processo di apprendimento continuo che coinvolge tutti: in questo modo si facilita l’interazione tra i membri del team perché c’è un mutuo interesse a far crescere la performance del collega, perché fondamentale per la performance del collettivo.
- Il sistema rappresenta un supporto a cui ancorarsi nei momenti di incertezza e tensione e consente di spostare il focus dai risultati al processo.
Bibliografia
Jackson, Phil e Delehanty, Hugh. Eleven Rings. Virgin Books, 2015.