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Richard Rumelt, guru della consulenza strategica, individua gli elementi imprescindibili di una buona strategia aziendale e ci mette in guardia rispetto ai principali errori da evitare.
Richard Rumelt è considerato uno dei massimi esperti nel campo della strategia aziendale. Nel suo libro Good Strategy/Bad Strategy, Rumelt distilla l’esperienza maturata in oltre 30 anni di insegnamento presso la business school della UCLA e di consulenza strategica presso aziende di tutte le dimensioni a livello globale.
Secondo Rumelt, il cuore di ogni buona strategia aziendale deve essere composto da tre elementi imprescindibili: una diagnosi, delle linee guida e un insieme di azioni coordinate.
La diagnosi
La diagnosi parte con l’analisi dei fatti con l’obiettivo di definire e comprendere la natura del problema che si deve affrontare, identificando i punti critici su cui occorre portare l’attenzione. Ha quindi l’obiettivo di ridurre la complessità della situazione oggetto di analisi, di separare le informazioni importanti dal semplice rumore. Secondo Rumelt non è possibile impostare una buona strategia se prima non si capiscono quali sono i problemi più importanti da risolvere.
“Non puoi risolvere un problema se non sai di averlo.” (Richard Rumelt)
Una buona diagnosi incorpora la visione esterna (“outside view”), cioè una volta contestualizzata la situazione, occorre valutare se problematiche simili sono già state affrontate ed in che modo in passato. La diagnosi ci rende inoltre consapevoli delle circostanze che hanno portato alla formulazione della strategia: questo ci consente di essere più efficaci nel monitorarla ed eventualmente rivisitarla se le circostanze dovessero cambiare.
Nel business, i cambiamenti strategici più importanti sono spesso determinati da una variazione della diagnosi, cioè della valutazione della situazione in cui si trova l’azienda. Quando nel 1993 Louis Gerstner prese le redini di IBM, l’azienda si trovava in una fase di grande difficoltà strategica. L’avvento dei microprocessori aveva infatti portato ad una disintegrazione verticale dell’industria dei PC: le aziende avevano iniziato a specializzarsi nei diversi segmenti (chips, memorie, hard disks, software, sistemi operativi etc) ed il vecchio modello integrato alla IBM sembrava ormai superato. Inoltre i PC si erano spostati sul desktop dove il mercato stava diventando molto competitivo e lo standard dominante era l’accoppiata Windows-Intel. La convinzione che sia all’interno dell’azienda che presso gli analisti di Wall Street, era che la struttura integrata di IBM fosse ormai obsoleta e non più in linea con la struttura frammentata del mercato. Quando arrivò Gerstner, erano già stati predisposti i piani per dividere IBM e quotare sul mercato i vari segmenti operativi.
Ma Gerstner bloccò tutto: riteneva che la diagnosi che era stata fatta fosse sbagliata. In un’industria dei PC sempre più frammentata, IBM era l’unica azienda a mantenere competenze ed esperienza in tutte le aree. La diagnosi di Gerstner era che il problema non fosse tanto di avere un business model integrato, ma quanto di sfruttare questa caratteristica a proprio favore, farla diventare un vantaggio competitivo. IBM doveva diventare ancora più integrata questa volta però focalizzandosi su soluzioni da costruire attorno ai clienti e lasciando perdere le vecchie piattaforme hardware. L’ostacolo principale da superare era la mancanza di coordinamento interno tra le varie divisioni e un basso livello di flessibilità e agilità.
Le linee guida
Le linee guida definiscono l’approccio complessivo per affrontare le criticità individuate nella diagnosi. Vengono definite “guida” perché indicano la direzione e i limiti delle azioni da intraprendere, senza però entrare nei dettagli delle stesse.
Nel caso di IBM, una volta effettuata la diagnosi, le linee guida dettate da Gerstner prevedevano di sfruttare il fatto che IBM fosse differente da tutte le altre aziende del settore e per questo unica. IBM si sarebbe focalizzata nel fornire soluzioni personalizzate ai propri clienti sfruttando le proprie competenze ed il proprio brand, integrando anche soluzioni software e hardware di altre aziende: in sostanza il valore aggiunto di IBM si sarebbe spostato dall’ingegneria dei sistemi alla consulenza IT. IBM passò dall’essere un’azienda che produceva hardware ad una società di consulenza.
Le linee guida hanno l’obiettivo di superare gli ostacoli identificati nella diagnosi cercando quando possibile di sfruttare i punti di forza esistenti. Nel caso di IBM, la soluzione proposta da Gerstner di focalizzarsi su soluzioni integrate per i clienti, faceva leva sulle competenze tecnologiche di primissimo livello diffuse in azienda in tutte le principali aree del data processing.
L’esperienza di Gerstner in IBM, dal 1993 al 2002, è considerata come uno degli esempi di cambiamento strategico di maggior successo nella storia aziendale recente: in quegli anni, la capitalizzazione di borsa di IBM passò da 29 a 168 miliardi di dollari con una performance annua pari a circa il 22%.
Passare all’azione
Una volta effettuata la diagnosi ed individuate le linee guida, occorre passare all’azione, cioè selezionare un insieme di interventi focalizzati, coordinati e coerenti che ci consentono di mettere a terra i princìpi definiti nelle linee guida.
Passare all’azione significa effettuare delle scelte: definire quali sono le vere priorità, quali cose sono veramente importanti e quali no, su quali aree allocare risorse e investimenti, su quali persone puntare, dove focalizzare gli sforzi. Il passaggio all’azione è forse lo step più difficile per il manager nell’implementazione di una strategia: scegliere è un lavoro duro e può scontentare molte persone. In un contesto di risorse limitate, decidere di puntare su un’area di business significa molto spesso rinunciare ad investire su un’altra.
Un approccio completo
Secondo Rumelt, una strategia non è buona se non contempla tutti e tre passaggi appena analizzati. Molto spesso si ha la tendenza a saltare i primi due step e a passare direttamente all’azione: quando dobbiamo affrontare un problema ci viene quasi immediatamente chiesto quale sia la lista delle azioni da implementare, cosa si deve fare per risolvere la situazione.
In questi contesti dobbiamo comunque prenderci del tempo per impostare un processo logico che parta dall’analisi dei fatti, per arrivare a delle linee guida e solo come step finale passare alle azioni. Il processo di diagnosi è fondamentale perché l’analisi del contesto, delle difficoltà da superare ci dà un quadro molto più chiaro delle strategie che possiamo implementare. E soprattutto ci consente di valutare come un cambio delle condizioni iniziali e del contesto può impattare sul tipo di strategia che viene implementata.
E’ quindi molto importante focalizzarsi non solo sul cosa viene fatto ma soprattutto sul perché, avere sempre bene a mente i problemi che le azioni che stiamo implementando hanno l’obiettivo di risolvere. Non è un segreto che in molte aziende spesso non si ha ben chiaro perché si implementano determinate procedure o vengono effettuate determinate azioni e a domanda si risponde laconicamente “perché si è sempre fatto così.”
L’incapacità di scegliere
In molte situazioni una “cattiva strategia” è figlia dell’incapacità di effettuare delle scelte. Nonostante si sia effettuata una buona analisi, spesso i leader sono incapaci di compiere scelte difficili tra progetti o aree in concorrenza tra loro, di indicare un percorso che possa scontentare qualcuno: in sostanza non sono in grado di scegliere il focus dell’azione.
In un contesto in cui si cerca di non scontentare nessuno e di perseguire tutte le opzioni sul tavolo, ci sono pochi incentivi per i singoli a sviluppare e approfondire le proprie argomentazioni. Al contrario la prospettiva di una scelta stimola le persone a dare il massimo per far emergere e valorizzare i propri progetti. In assenza di focalizzazione si crea un clima di assenza di competizione tra idee e di scarsa motivazione al miglioramento e l’obiettivo diviene la difesa della posizione.
Supponiamo di entrare in una riunione con i nostri tre riporti diretti, in cui dobbiamo discutere un progetto che li coinvolge direttamente. I tre hanno opinioni molto differenti sulla strategia da adottare e non riescono a mettersi d’accordo su una posizione condivisa. Come vi comportate? La tentazione è quella di trovare la classica soluzione di compromesso, per non scontentare nessuno e non dover gestire la delusione di due riporti su tre. Tuttavia la soluzione di compromesso è in gran parte dei casi una non scelta e quindi per definizione una cattiva strategia. Una cattiva strategia preferisce sorvolare su problemi fastidiosi, ignora il potere della scelta e del focus e cerca invece di accomodare una moltitudine di interessi differenti.
Andy Grove, uno dei fondatori di Intel, ricorda le difficoltà emotive, intellettuali e politiche che dovette affrontare nel guidare la transizione della sua azienda da un focus sulla produzione di DRAM (le memorie) a quello sui microprocessori.
Intel era nata come una azienda specializzata nella produzione di DRAM di cui aveva sviluppato gran parte della tecnologia. Tuttavia nel 1984 era ormai chiaro che l’azienda non era più competitiva rispetto al pricing imposto dai produttori giapponesi: Intel iniziò a registrare profitti negativi. Man mano le perdite si fecero più importanti, il senior management si iniziò ad interrogare su quali fossero le mosse da intraprendere. Grove, allora CEO, ricorda che il punto di svolta fu quando nel 1985 ebbe una conversazione con Gordon Moore, storico presidente di Intel. “Se ci cacciano e il board sceglie un nuovo CEO, quale pensi sia la sua prima mossa?” Grove chiese all’amico. E Moore rispose immediatamente: “Uscirebbe dal business delle DRAM!”. Allora Grove replicò: “Allora perché io e te non usciamo dalla porta, poi rientriamo e lo facciamo noi?”.
Non fu facile per Grove guidare questo cambiamento. Il settore delle DRAM era stato il motore che aveva guidato la ricerca, la produzione, le carriere e l’orgoglio di Intel. I venditori erano preoccupati dell’impatto sui clienti e i ricercatori cercarono di opporsi alla cancellazione dei progetti sulle memorie. Grove tenne duro e guidò la rifocalizzazione della società sui microprocessori tanto che nel 1992 Intel diventò il nuovo leader di mercato in questo segmento.
Confondere gli obiettivi con la strategia
Un altro tipico errore dei manager è quello di credere che per definire una strategia sia sufficiente fissare degli obiettivi finanziari, in termini di crescita o di marginalità, e compilare il classico template con visione-missione-valori.
Rumelt sottolinea come molti CEO si limitino a fissare degli obiettivi, molto spesso incoerenti tra di loro e difficilmente realizzabili, cercando poi di motivare e spingere tutta la struttura verso il raggiungimento degli stessi. Sono leader che fanno leva sul coraggio, sulla motivazione, sull’impegno e sulla spinta fino al raggiungimento dell’obiettivo. Tuttavia il leader non può limitarsi a stimolare la motivazione parlando di valori e di missione: il leader deve determinare le condizioni per far si che la spinta sia efficace, cioè definire una strategia che sia all’altezza dello sforzo che viene richiesto. Altrimenti gli sforzi potrebbero andare sprecati.
Così come un allenatore il cui unico consiglio per i propri giocatori è il discorso motivazionale prima della partita condito dalla frase “e adesso andiamo a prenderci la vittoria”, una cattiva strategia cerca di mascherare l’incapacità di affrontare i problemi abbracciando il linguaggio degli obiettivi generici, delle ambizioni, delle visioni e dei valori. Come disse Gerstner quando fu nominato CEO di IBM, “l’ultima cosa di cui ha bisogno IBM adesso è una visione.”
“La cattiva strategia è piena di obiettivi e carente di principi e azioni.” (Richard Rumelt)
L’esempio di Apple
Dopo il lancio di Windows 95, Apple entrò in una fase di profonda crisi strategica: il mondo dei PC era ormai dominato dall’accoppiata Microsoft-Intel e il CEO Gil Amelio non aveva chiaro che direzione prendere. Nel febbraio 1996, BusinessWeek presentò una copertina dedicata ad Apple con il titolo “The Fall of an American Icon.” certificando la crisi dell’azienda di Cupertino. Secondo gli analisti di Wall Street l’unica soluzione era rappresentata da una fusione con Sony o HP.
A settembre 1997, a soli due mesi dal fallimento, Steve Jobs, cofondatore dell’azienda nel 1976, fu convinto a ritornare come CEO ad interim. Appena entrato, Jobs non si focalizzò sul lancio di nuovi prodotti o su una fusione come avrebbe voluto Wall Street. Al contrario iniziò un’operazione di ridimensionamento radicale dell’azienda per renderla in grado di sopravvivere come operatore di nicchia in un’industria dei PC divenuta ormai iper competitiva. Tagliò tutte le versioni di desktop e portatili fino ad arrivare ad un solo modello per entrambi. Tagliò tutti le stampanti e le periferiche, tutti gli sviluppi di software. Ridusse il numero dei distributori retail da sei a uno. Eliminò tutta la produzione spostandola a Taiwan: con la produzione in Asia, riuscì a ridurre le scorte di circa l’80%. Iniziò a vendere i PC sul sito web, disintermediando i distributori e i dealer.
Grazie a queste mosse, i conti finanziari di Apple ritornarono velocemente in positivo. Il potere delle soluzioni di Jobs derivava dal fatto di aver individuato chiaramente le criticità (“diagnosi”) e dall’averle affrontate senza indugio con una serie di azioni focalizzate e coordinate, senza la paura di scontentare qualcuno. Appena arrivato non annunciò una serie di obiettivi in termini di ricavi o di profitti e non si prodigò in visioni profetiche sul futuro. Allo stesso tempo i tagli non furono effettuati in maniera casuale ma vennero utilizzati per ridisegnare il business attorno ad una nuova impostazione (“linee guida”) che prevedeva un’azienda di nicchia con un catalogo prodotti semplificato venduto attraverso un numero ridotto di distributori.
Jobs era altresì consapevole che la partita nel settore dei PC era ormai persa (nel 1998 Apple aveva una quota di mercato del 4%) e dopo aver ristrutturato il modello di business si focalizzò sulle nuove opportunità al di fuori del mondo dei PC che stavano emergendo in quegli anni di radicali cambiamenti tecnologici. Dopo solo due anni Apple sarebbe ripartita prima con l’iPod e poi con l’iPhone.
Conclusioni
Se fissiamo degli obiettivi in termini di crescita, marginalità, quote di mercato e compiliamo un template con visione-missione-valori, forse avremo a disposizione del materiale per completare una presentazione corporate; non potremmo però certo affermare di avere una strategia. Una buona strategia richiede di più rispetto ad avere una visione e formulare degli obiettivi da raggiungere.
Una buona strategia è in grado di ridurre la complessità del contesto di azione individuando i punti critici e gli ostacoli da affrontare; definisce le linee guida che devono ispirare e guidare le attività; individua una serie di azioni coerenti e coordinate per superare i punti critici, sfruttando e focalizzando le risorse e le competenze esistenti. Una buona strategia rappresenta il miglior vantaggio competitivo a disposizione dell’azienda.
Bibliografia:
Rumelt, Richard. Good Strategy/Bad Strategy: The Difference and Why it Matters. Profile Books, 2013.