Podcast: Play in new window | Download
Una cultura aziendale in grado di far emergere prontamente gli errori e di imparare dai fallimenti è un prerequisito per generare innovazione in maniera sostenibile.
La capacità di sopportare il rischio e di gestire il fallimento sono forse gli elementi più critici di ogni processo di innovazione. La paura di fallire può bloccare la creazione di nuove idee perché le persone sono giustamente preoccupate per le conseguenze negative sulla proprio percorso di carriera.
Nonostante sia piuttosto intuitivo che per favorire l’innovazione occorra creare un ambiente di lavoro in cui le persone si sentano protette nell’esprimere le proprie idee e nell’assumersi dei rischi, in realtà in gran parte delle aziende accade proprio il contrario.
Il gioco della colpa (“the blame game”)
La docente di Harvard Amy Edmondson, nell’articolo “Strategies for Learning from Failure” afferma che quasi tutti i manager hanno un atteggiamento sbagliato nei confronti del fallimento e dell’errore. Il fallimento è sempre giudicato in maniera negativa e si ritiene che l’unico modo per metterlo a frutto sia quello di individuare il “colpevole” ed esortarlo ad evitare di ripetere un simile errore in futuro. Si pensa infatti che se chi ha commesso l’errore non viene redarguito, si possa creare un ambiente troppo “rilassato” in cui i fallimenti possono moltiplicarsi.
Questo atteggiamento basico nei confronti del fallimento, definito gioco della colpa, ha due conseguenze negative: la prima è che le persone vengono scoraggiate dall’assumersi dei rischi per paura di sbagliare e quindi si soffoca alla radice il processo di innovazione; la seconda è che non ci sono incentivi a far emergere gli errori che non hanno conseguenze visibili immediate, nella speranza che tutto possa sistemarsi o di potersi sottrarre dalla punizione.
Non tutti i fallimenti sono uguali
Un primo passo per evitare il gioco della colpa e iniziare a costruire una cultura aziendale che possa imparare dall’errore, consiste nel riconoscere che non tutti i fallimenti sono uguali. Secondo la Edmondson infatti, i fallimenti possono essere raggruppati in tre categorie: quelli evitabili, quelli legati alla complessità e quelli intelligenti.
I fallimenti evitabili sono quelli da biasimare e sono generalmente connessi a deviazioni dalle procedure, disattenzioni, mancanza di abilità o a processi inadeguati e sono tipici di attività ripetitive ad alto volume come i processi produttivi o di customer service.
Ci sono poi i fallimenti connessi a situazioni complesse dove l’incertezza del campo di gioco è talmente elevata che gli errori possono essere considerati inevitabili: basti pensare allo smistamento dei pazienti in un pronto soccorso o alla gestione di una start up in un settore ad alta crescita. In questi casi l’obiettivo è quello definire un processo di gestione del rischio che faccia emergere gli inevitabili errori in maniera tempestiva, per evitare che possano fare danni significativi se ignorati. Gran parte degli incidenti che avvengono negli ospedali sono il risultato di una serie di piccoli errori che vengono trascurati e che si accumulano nel tempo.
Ci sono infine i fallimenti intelligenti, quelli legati alle attività di sperimentazione e di ricerca e sviluppo. Quando si ricercano nuovi farmaci, si sviluppa un nuovo prodotto oppure si vuole testare la reazione dei consumatori in un nuovo segmento di mercato, i fallimenti intelligenti sono essenziali per generale conoscenza, acquisire informazioni e confutare o confermare delle ipotesi di lavoro. Non è un caso che in inglese il processo di sperimentazione venga definito “trial & error” e che lo slogan tipico nei settori ad alta intensità di ricerca sia “fallisci spesso se vuoi avere successo velocemente”.
Nella sua lettera di fine 2020, Bill Gates racconta un esempio interessante di fallimento intelligente. Nel marzo dello stesso anno la sua fondazione, insieme a Wellcome e Mastercard hanno finanziato un progetto chiamato “Therapeutics Accelerator”. L’idea era di utilizzare dei robot per effettuare uno screening veloce delle migliaia di composti chimici già sviluppati dalle case farmaceutiche per verificare se qualcuno poteva essere utile per la cura del Covid. Si voleva capire: non è che qualche azienda pharma o biotech ha già nel suo scaffale la soluzione per la pandemia? il progetto non ha avuto esito positivo. Ma il lavoro comunque è stato molto utile perché ha consentito all’ambiente medico di risparmiare un anno o forse due nel verificare e testare se qualche composto potesse funzionare: la risposta negativa ha fatto direzionare immediatamente gli sforzi altrove. Gates ha affermato: “Dico sempre al team della fondazione di non avere paura del fallimento: e quando falliamo dobbiamo farlo velocemente e usarlo per imparare.”
E’ chiaro quindi che un bravo manager dovrebbe capire il contesto di gioco e la natura dell’errore: in attività ripetitive l’errore dovrebbe essere ridotto ai minimi tramite l’allenamento e l’affinamento continuo del processo (esempio tipico è il sistema produttivo adottato in Toyota). In contesti complessi e imprevedibili non si può pretendere di eliminare gli errori ma occorre definire dei sistemi in grado di individuarli e correggerli tempestivamente. Infine nei processi di ricerca e sviluppo occorre addirittura promuovere il fallimento perché generatore di conoscenza.
Purtroppo la realtà è ben diversa: i manager intervistati dalla Edmondson hanno dichiarato amaramente di aver applicato il “gioco della colpa” a circa il 70-90% degli errori commessi in azienda, nonostante, seguendo il ragionamento della ricercatrice, gli errori veramente da biasimare fossero stati meno del 10%.
Creare una cultura diversa
Solo i leader e i manager possono creare e rinforzare una cultura che si sottrae al gioco della colpa e rende le persone più sicure nel prendersi dei rischi e nell’ammettere gli errori.
Quando nel settembre 2006 Alan Mulally, dopo una lunga carriera in Boeing, arrivò come nuovo CEO in Ford, l’azienda si trovava sull’orlo del fallimento. Appena arrivato, chiese ai manager delle diverse divisioni di implementare una tecnica di management abbastanza standard, cioè quella di indicare i propri report con un colore verde se era tutto a posto, giallo per denotare situazioni di difficoltà per cui era già stata individuata una soluzione e rosso quando c’era un problema ancora irrisolto. Alla prima riunione, tutti i manager si presentarono con un colore verde. Mulally abbastanza frustrato replicò: “ragazzi quest’anno probabilmente perderemo 17 miliardi di dollari…siete sicuri che vada tutto bene?”. A quel punto un manager disse che un progetto da lui supervisionato meritava un giallo perché un difetto di produzione avrebbe potuto ritardare un lancio: tutti si zittirono immediatamente. Mulally ruppe immediatamente il silenzio con un fragoroso applauso congratulandosi con il manager che aveva avuto il coraggio evidenziare il problema. Dalla riunione successiva i report iniziarono a riempirsi di colori diversi.
Prima dell’arrivo di Mulally i meeting in Ford erano una sorta di combattimento all’ultimo sangue: ogni manager cercava di infierire sulla debolezza dell’altro e l’autoconservazione aveva la meglio sulla collaborazione. Mulally cambiò subito registro: i meeting diventarono un ambiente protetto dove ogni settimana i dati potevano essere condivisi senza il rischio di venire attaccati e dove i problemi venivano messi a fattor comune e affrontati come un team. Il manager aveva capito che per salvare Ford, non sarebbe bastato tagliare i costi ed efficientare i processi ma occorreva intervenire sulla cultura aziendale, cercando di instillare una nuovo insieme di valori che rifiutavano il gioco della colpa e premiavano la collaborazione.
“E’ importante cercare di comprendere prima di cercare di essere compreso.” (Alan Mulally)
“Ritrovarsi insieme è l’inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme è un successo.” (Henry Ford)
E’ grazie anche a questa nuova cultura che durante la gestione di Mulally, Ford non solo fu l’unica azienda automobilistica americana ad evitare il fallimento durante la crisi del 2008, ma riuscì successivamente a mettere a segno 19 trimestri consecutivi di crescita dei profitti, inserendosi tra le ristrutturazioni di maggiore successo della storia aziendale americana.
Un altro esempio è fornito da Google dove si rifiuta il gioco della colpa e si è cercato addirittura di istituzionalizzare il processo di apprendimento dall’errore. Ogni trimestre i manager analizzano la performance del loro team rispetto ai target di fronte a tutta l’azienda. E nel caso molto frequente in cui i target non vengano raggiunti, i manager spiegano il perché, cosa hanno imparato e cosa pensano di fare per migliorare. Si vuole instillare quindi il concetto che non ci sia nulla di male nel fallire ma che la cosa determinante sia cercare di imparare dagli errori e condividere l’esperienza in modo che tutta l’azienda ne possa trarre beneficio.
Premortem e postmortem
Esistono due strumenti ampiamente utilizzati in teoria delle decisioni per implementare un processo strutturato di apprendimento dall’errore.
Nella fase iniziale di un progetto, i membri del team possono riunirsi per discutere un premortem, approccio reso popolare nel 2007 da Gary Klein nell’articolo “Performing a Project Premortem” e regolarmente adottato da numerose aziende della Silicon Valley. Il premortem è un esercizio che ha l’obiettivo di individuare in anticipo tutte le possibili situazioni che possono far deragliare un progetto in modo da poter apportare da subito delle azioni correttive e di mitigazione dei rischi. Si parte con l’ipotesi che il progetto sia fallito e con i membri del team che, ciascuno separatamente, sono chiamati ad individuare una lista dei problemi, grandi o piccoli, che possano aver determinato il fallimento, fase che in Google viene definita “Session of Doom”. Le liste vengono poi confrontate e si selezionano quei fattori di rischio che hanno maggiore probabilità o più alto impatto potenziale. Infine vengono individuate le azioni da implementare per mitigare i rischi individuati.
La procedura del premortem presenta numerosi vantaggi. Innanzitutto, coloro che nutrono dei dubbi sul progetto, hanno la possibilità di esprimere senza riserve le proprie opinioni senza correre il rischio di sembrare contrari, negativi o politicamente scorretti: si valorizzano quindi le opinioni di tutti. Inoltre si mitigano le situazioni in cui i manager potrebbero non mettere un focus adeguato sull’analisi dei rischi perché incentivati a portare avanti velocemente il progetto. Infine queste discussioni aiutano a normalizzare il concetto di fallimento e ad imparare dallo stesso senza sopportarne le conseguenze dolorose.
Se il premortem precede l’inizio di un progetto, il postmortem è invece un’analisi che viene effettuata a consuntivo per capire cosa è andato bene, cosa male e quale è stato l’impatto della fortuna. E’ una metodologia di lavoro introdotta dalla CIA negli anni ‘50 per analizzare gli insuccessi dell’intelligence relativi alla guerra in Corea e da allora è uno strumento regolarmente utilizzato dai team di analisti.
Il postmortem è un momento fondamentale per imparare dagli errori ma anche dai successi e per capire cosa si può fare in maniera diversa la volta successiva. In Google alcuni team vengono invitati a presentare il proprio postmortem di fronte a tutta l’azienda: il fallimento viene infatti considerato un’opportunità di apprendimento che deve essere condivisa da tutta l’azienda.
Imparare dagli errori
In un contesto complesso e interconesso, una cultura aziendale in grado di far emergere prontamente gli errori e di imparare dai fallimenti, rappresenta un vantaggio competitivo determinante oltre che un prerequisito per generare innovazione in maniera sostenibile. Occorre quindi demolire quanto prima un sistema organizzativo in cui trova spazio il gioco della colpa in quanto come sostenuto da Henry Ford “il fallimento è solo un’opportunità per ricominciare. Questa volta in maniera più saggia.”
“Il fallimento è solo un’opportunità per ricominciare. Questa volta in maniera più saggia.” (Henry Ford)
Bibliografia:
Edmondson, Amy C. Strategies for Learning from Failure. Harvard Business Review, April 2011.
Google. Guide: Foster an Innovative Workplace. re:Work.
Klein, Gary. Performing a Project Premortem. Harvard Business Review, September 2007.