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Chiedere il feedback è importante: perché possa essere veramente utile però è necessario che non sia condizionato da quello che abbiamo già in testa.
Solomon Asch, uno degli psicologici più influenti del XX secolo, condusse negli anni ’50 una serie di esperimenti per verificare i fenomeni di “pressione sociale”: ci si trovava in una fase storica di forte preoccupazione nei confronti dei sistemi di condizionamento di massa adottati nei regimi comunisti e da pochi anni si era conclusa l’esperienza del nazismo, dove un’intera nazione era caduta in preda ad una follia collettiva.
L’esperimento più famoso prevedeva di sottoporre ad una persona, inserita in un gruppo, un test di percezione molto semplice: riconoscere quale delle linee della carta B fosse uguale a quella della carta A.
La risposta è ovvia: è la linea 2. Tuttavia l’esperimento era congegnato in modo tale che tutti gli altri membri del gruppo, fornissero la stessa risposta sbagliata (ad esempio linea 3) prima che fosse il turno della persona oggetto di test. Ebbene di fronte a questa situazione, circa il 37% delle persone testate si dichiarò d’accordo con l’opinione errata del gruppo. L’esperimento fu ripetuto svariate volte con lo stesso format in altri contesti portando a risultati analoghi.
Per giustificare i risultati Asch formulò un’ipotesi di “pressione sociale”: pur rimanendo convinti della propria idea, si ha paura ad esprimere un’opinione diversa da quella del gruppo. Successive interpretazioni hanno formulato anche un’altra ipotesi: quando ci si trova di fronte ad un gruppo di persone che mostrano unanimemente una valutazione diversa dalla nostra, si tende a mettere in discussione la propria valutazione e non quella del gruppo: in sostanza si cambia idea.
“La vita sociale richiede il consenso come condizione indispensabile. Per essere produttivo, il consenso richiede che ogni individuo fornisca il proprio contributo in maniera indipendente.” (Solomon E. Asch)
L’impatto sul feedback
E’ chiaro che i meccanismi di condizionamento analizzati da Asch entrano in gioco prepotentemente quando chiediamo un feedback: se esprimiamo la nostra valutazione prima di chiedere l’opinione altrui, aumentiamo significativamente le probabilità che di ritorno riceviamo una visione molto simile alla nostra. Sia perché la persona, pur avendo un’opinione diversa può mostrare ritrosia ad esprimerla per non metterci in imbarazzo, se pensa che noi abbiamo torto, oppure per non sentirsi in imbarazzo se pensa che sia lei ad avere probabilmente torto. Oppure perché la persona, dopo aver ascoltato la nostra tesi, può cambiare idea ed allinearsi, anche inconsapevolmente, alla nostra.
Per cui la prima regola, quando si chiede un feedback, è non esprimere mai la propria opinione per primi in modo tale da evitare qualsiasi tipo di condizionamento.
Un’altra tipologia di condizionamento deriva dal risultato della decisione. Se chiediamo l’opinione di una persona rispetto ad una scelta del passato di cui conosciamo già gli effetti, dovremmo evitare di comunicarli prima di ricevere il feedback. Il risultato può infatti condizionare significativamente il giudizio del nostro interlocutore che invece di concentrarsi sulla qualità della decisione sposterebbe sicuramente il focus sui suoi effetti. L’obiettivo è quindi di porre l’interlocutore nelle stesse condizioni in cui ci trovavamo noi al momento della decisione, quando non eravamo a conoscenza dei risultati.
L’esperimento dei candidati
È chiaro che la situazione si complica quando ci troviamo in un contesto di team, perché appena la prima persona esprime la sua opinione, scattano i meccanismi di condizionamento.
Un celebre esperimento condotto dai ricercatori Stasser e Titus negli anni ’80, ha dimostrato che i membri di un team tendono a non condividere le informazioni in loro esclusivo possesso che contrastano con quelle del consenso appena raggiunto.
L’esperimento prevedeva che gruppi di 4 persone dovessero decidere quali tra tre candidati fosse più indicato a ricoprire il ruolo di rappresentante degli studenti. I ricercatori prepararono dei dossier con caratteristiche positive e negative di ciascun candidato: il candidato A era stato designato per essere evidentemente il più adatto. Ogni membro del gruppo visionava i dossier in anticipo e si riuniva poi con gli altri tre per raggiungere un consenso sul candidato preferito.
In una tipologia di gruppi (“informazione completa”), ogni membro riceveva i dossier completi di tutte le informazioni: in questo contesto tutti i gruppi esprimevano la preferenza per il candidato A.
Nei gruppi ad “informazione parziale”, ogni membro riceveva dei dossier con informazioni parziali: in aggregato però il gruppo aveva informazioni complete perché quelle mancanti in un dossier erano presenti in un altro e viceversa. Inoltre ogni membro era stato informato che il proprio dossier era parziale e che le informazioni mancanti potevano essere presenti nei dossier degli altri membri del team. Ebbene in questa configurazione, nella maggioranza dei casi i gruppi non indicavano il candidato A come preferito. In sostanza questi gruppi raggiungevano un consenso veloce basato su informazioni parziali e chi possedeva informazioni che contrastavano con il consenso (negative sul candidato preferito o positive su quelli non selezionati) tendeva a non condividerle.
In sostanza, anche se i gruppi ad “informazione parziale” avevano tutte le informazioni per determinare che il candidato A fosse il migliore, non riuscivano a metterle a fattor comune e atterravano su una scelta inferiore. Questo perché molte informazioni rimanevano nella testa delle persone una volta che si era formato il consenso.
Il feedback nei team
Come valorizzare il feedback di tutti i membri del team ed evitare le distorsioni evidenziate da Stasser e Titus?
Una strategia efficace è quella di raccogliere le opinioni e i ragionamenti dei membri del team in modalità separata e condividerle con gli altri prima della riunione.
Ad esempio, se un comitato investimenti deve decidere se effettuare una determinata operazione di mercato, si dovrà chiedere il feedback dei partecipanti e condividerlo prima della discussione collettiva nel comitato. Oppure se un team legale deve fornire una raccomandazione per un cliente su un determinato caso, si chiederà il parere di ciascun membro e si farà circolare per mail a tutti i partecipanti prima del team meeting.
Varie ricerche hanno dimostrato che gli individui forniscono un feedback che riflette in maniera più fedele le proprie conoscenze e convinzioni se sono da soli rispetto ad una situazione di gruppo. Uno studio del 2017 dell’Università di Harvard ha riscontrato che quando agli studenti viene chiesta un’opinione per alzata di mano, si crea immediatamente un effetto gregge: gli studenti alzano la mano semplicemente perché vedono altri alzarla e quindi si creano delle super maggioranze. Queste super maggioranze scompaiono quando gli studenti rispondono con dei pulsanti senza poter vedere le risposte degli altri.
Richiedere il feedback iniziale in maniera indipendente e condividerlo per mail o altra modalità prima della discussione di gruppo può essere un modo efficace per valorizzare le diversità di opinioni ed evitare il groupthink.
Un ulteriore accorgimento può essere quello di condividere i feedback iniziali in forma anonima in modo da evitare di “pesare” in maniera diversa le opinioni tra persone senior e junior del team.
Conclusioni
Chiedere feedback è importante: perché possa essere veramente utile però è necessario che non sia condizionato da quello che abbiamo già in testa.
Se siamo in situazioni di 1-1 è quindi necessario evitare di esprimere in anticipo la propria opinione o di parlare dei risultati se sollecitiamo un feedback su una scelta passata.
In un contesto di gruppo, per evitare i fenomeni di groupthink è utile raccogliere le diverse opinioni in maniera indipendente e condividerle, se del caso anche in forma anonima, prima della discussione collettiva.
Bibliografia
Asch, Solomon E.. Opinions and Social Pressure. Scientific American, 1955.
Duke, Annie. How to Decide. Portfolio/Penguin, 2020.