Utilizzando il metodo dei principi primi mettiamo in discussione l’investimento in obbligazioni high yield e in azioni di paesi emergenti.
In questo articolo cercheremo di smontare 2 convinzioni fortemente radicate nella mente degli investitori, soprattutto quelli italiani. E lo faremo senza:
– ricorrere a complesse teorie/assunzioni finanziarie o macroeconomiche;
– cercare di prevedere il futuro.
Utilizzeremo quindi solo la logica ed in particolare il metodo dei principi primi ponendoci delle domande in stile socratico per smontare la questione e capirla nella sua essenza.
I due miti che andremo a mettere in discussione sono:
- l’investimento in titoli obbligazionari ad alto rendimento, anche definiti high yield (“HY”);
- l’investimento in azioni dei mercati emergenti.
Le obbligazioni High Yield
Se vi facessero questa domanda: “preferiresti diventare azionista di un’azienda solida che sforna utili e genera molta cassa oppure creditore di un’azienda che ha problemi di affidabilità finanziaria?”
Beh, posta così, la risposta appare abbastanza scontata. Eppure, gran parte degli investitori italiani fanno esattamente il contrario: preferiscono comprare fondi obbligazionari high yield (HY) piuttosto che investire in azioni delle principali aziende quotate in borsa. Queste perché la nostra cultura finanziaria è prevalentemente improntata all’investimento obbligazionario: sapere che c’è una promessa di restituzione del capitale e una cedola anche significativa lungo il percorso ci fa stare più tranquilli rispetto ad un investimento azionario dove non c’è nessuna promessa. E, forti di questa convinzione, preferiamo finanziarie aziende deboli piuttosto che investire in aziende forti.
E sì perché le aziende dell’universo high yield sono quelle che hanno un rating basso, dalla BB in giù. Proviamo a leggere le definizioni di S&P, una delle principali agenzie di rating:
BB = un debitore BB si trova ad affrontare grandi incertezze ed è esposto a condizioni economiche, finanziarie e di business negative che possono rendere inadeguata la capacità di rispettare gli impegni finanziari.
B = un debitore B è più vulnerabile di un BB anche se al momento ha ancora la capacità di rispettare gli impegni finanziari. Condizioni economiche, finanziarie e di business negative possono probabilmente danneggiare la capacità o la volontà di rispettare gli impegni finanziari.
Poi ci sono le aziende con rating C, quindi ancora peggiori. Ecco dopo aver letto queste definizioni, sareste ancora convinti ad investire in titoli ad alto rendimento? Questi titoli vengono anche definiti “spazzatura” (“junk” bonds): è chiaro che “alto rendimento” e “spazzatura” sono due punti di vista molto differenti della stessa situazione. Il problema è che nella nostra testa molto spesso sono titoli “alto rendimento” quando siamo positivi e li compriamo, e poi diventano “spazzatura” quando siamo negativi e li vendiamo. Il fatto è che dovremmo renderci conto che sono strumenti ad “alto rendimento” proprio perché sono “spazzatura”.
Analizziamo ora i dati: abbiamo preso 3 indici rappresentativi delle obbligazioni high yield, delle azioni e delle obbligazioni governative dell’area euro, dal 2006 (anno in cui inizia la serie per le obbligazioni high yield) al 31 luglio del 2023. I risultati sono raffigurati nella tabella 1 sottostante:
Si può notare come le obbligazioni high yield abbiamo avuto nel periodo di riferimento un rendimento di circa il 2% annuo superiore a quelle governative con duration simile (3/4 anni) ma al prezzo di un rischio molto più alto: la volatilità è tripla e anche la perdita massima. Le azioni dell’area euro, nel periodo preso in considerazione, hanno sicuramente deluso: solo il 4,3% all’anno confrontato con il 7,6% del MSCI World, cioè un indice di azioni globali. Ci sono vari motivi per cui le azioni dell’area euro hanno sottoperformato quelle globali ma non è il tema dell’articolo e per semplicità della nostra analisi usiamo solo indici dell’area euro.
A questo punto dobbiamo porci un’altra domanda: “in un portafoglio diversificato, quale dovrebbe essere il ruolo della componente obbligazionaria?” Anche qui la risposta sembra scontata: le obbligazioni dovrebbero smussare la volatilità dell’investimento azionario soprattutto in periodi di crisi e recessione, quando gli utili aziendali sono sotto pressione. Anche da questo punto di vista, in un’ottica di diversificazione di portafoglio, le obbligazioni high yield non si sposano bene con l’investimento azionario: vanno in difficoltà nella stessa situazione, cioè quando l’economia peggiora. Durante la crisi del 2008, mentre l’azionario euro perdeva il 56%, le obbligazioni HY lasciavano sul terreno il 35%. Dal 2006 ad oggi la correlazione tra le obbligazioni HY e l’azionario è stata molto alta, pari a 0,74, mentre quella delle obbligazioni governative con le azioni è stata pari a zero. Per di più i titoli spazzatura diventano molto illiquidi durante i momenti di crisi, per cui risulta difficile venderli a prezzi accettabili proprio quando essere liquidi acquista più valore.
Abbiamo quindi simulato l’andamento di due portafogli: il primo (P1) con il 50% di azioni e il 50% di obbligazioni HY, e il secondo (P2) con le obbligazioni governative, più sicure, al posto degli HY. I risultati, con un’ipotesi di ribilanciamento annuale, sono riportati nella tabella 2 sottostante:
Nonostante le obbligazioni HY abbiano avuto un rendimento molto più alto rispetto a quelle governative, il differenziale di rendimento tra P1 e P2 è molto contenuto, pari a solo lo 0,5%. Questo perché, se ho in portafoglio due investimenti decorrelati, il ribilanciamento funziona molto bene perché sfrutta il meccanismo del comprare basso e vendere alto, cosa che invece non accade se gli attivi in portafoglio si muovono sempre nella stessa direzione.
Inoltre, i dati di rischio di P1 sono veramente deludenti: pur essendo investito al 50% in obbligazioni, ha una rischiosità che si avvicina molto ad un azionario puro. Ad esempio, durante la crisi del 2008 avrebbe perso il 45%: quanti avrebbero tenuto duro di fronte ad una perdita simile? Probabilmente molti avrebbero panicato e venduto sui minimi, per cui il rendimento del 4,4% di lungo periodo non si sarebbe mai realizzato. Il vantaggio di un portafoglio diversificato (veramente) è quello di limitare le perdite durante i momenti di difficoltà e di darci la tranquillità necessaria per tener fede alla strategia di lungo periodo. In sostanza: con P2 quasi tutti avrebbero realizzato il 3,8%; con P1 solo pochi temerari il 4,4% (e gli altri avrebbero avuto rendimenti largamente inferiori, anche negativi).
Per cui:
- se vogliamo investire nella crescita degli utili delle aziende, è molto meglio essere azionisti di società di qualità tramite fondi azionari piuttosto che diventare creditori di aziende deboli con fondi high yield;
- se vogliamo ridurre la volatilità dei nostri investimenti azionari e diversificare è molto meglio comprare obbligazioni governative ad alto rating piuttosto che obbligazioni high yield (che non diversificano).
Gran parte degli investitori, e soprattutto quelli non professionali, dovrebbero quindi stare alla larga da questa asset class. Non è un caso se grandi investitori come David Swensen, il mitico gestore del fondo dell’università di Yale e Ray Dalio, il fondatore di Bridgewater, il più grosso hedge fund globale, non abbiano mai considerato gli HY nell’allocazione dei propri portafogli multi asset.
Le azioni dei mercati emergenti
Ora proviamo a rispondere a questa domanda: “Preferiresti investire in un’azienda di un settore in crescita ma con un management e una governance discutibili oppure in un’azienda di un segmento un po’ più maturo ma con un management e una governance di qualità?”.
L’investimento nei mercati emergenti è un grande mito che affascina perché siamo attratti dal potenziale di crescita di lungo periodo di questi paesi, che ci appare decisamente superiore a quello delle economie più mature. Peccato però che il potenziale di crescita di un’economia non si trasferisce necessariamente nella crescita degli utili delle aziende quotate in borsa e conseguentemente nelle performance azionarie.
Innanzitutto, quando l’investimento è guidato dalle aspettative di crescita molto spesso si va incontro a delusioni: si corre il rischio di pagare dei prezzi elevati per una crescita che è stata elevata in passato e che difficilmente si ripeterà anche nel futuro.
E poi bisogna considerare che la crescita dell’economia, cioè del prodotto interno lordo di un paese, non comporta necessariamente una crescita equivalente dei profitti delle aziende quotate in quel paese. Prima di tutto, soprattutto negli emergenti, una buona parte dell’economia è costituita da aziende non quotate, per cui la borsa non è sempre rappresentativa del tessuto economico di un paese. E poi, anche concentrandosi sulle aziende quotate, la crescita dei volumi e dei ricavi può disperdersi lungo le varie voci del P&L fino ad arrivare ad una crescita dei profitti molto inferiore. E questo accade quando la qualità del management e la governance sono discutibili, cosa piuttosto comune nelle aziende quotate nei paesi emergenti, buona parte delle quali sono di matrice statale o parastatale e dove gli interessi degli azionisti di minoranza non sono sempre tutelati e sicuramente non una priorità. Trasparenza dei bilanci, organismi di controllo, tutela degli azionisti, possibili interferenze dei regolatori nel business: su questi aspetti le aziende emergenti soffrono di distorsioni molto importanti rispetto a quelle dei paesi sviluppati.
Uno studio di Schroders ha calcolato che nei vent’anni dal 1997 al 2017, a fronte di una crescita reale annuale dell’economia dei paesi emergenti del 4,2%, la crescita degli utili per azione delle aziende quotate è stata pari solo all’1%, una perdita del 3% lungo i rivoli dell’inefficienza. In Cina, questo impatto negativo è stato addirittura pari al 9%: una crescita media del 9% si è trasformata in una crescita nulla degli utili per azione. Nei paesi sviluppati è accaduto il contrario: a fronte di una crescita dell’economia del 1,7%, i profitti sono aumentati del 3,7%.
Una delle fonti più importanti di “perdita di profitto” è legata all’effetto diluizione connesso all’emissione di nuove azioni o alla quotazione di nuove aziende. Nei mercati emergenti questo effetto dal 2007 al 2017 è stato pari al 3,8% contro lo 0,5% dei paesi sviluppati. In sostanza molta della crescita dei mercati emergenti è finanziata attraverso l’emissione di nuove azioni o la quotazione di nuove aziende che diluiscono gli azionisti esistenti.
Analizziamo ora i dati. Nella figura sottostante, presa da MSCI, il provider più conosciuto di indici azionari, sono confrontate le performance negli ultimi 15 anni dei mercati emergenti e di quello cinese con quelle dei mercati sviluppati.
I risultati sono chiari: gli emergenti e la Cina hanno significativamente sottoperformato i mercati sviluppati, a fronte di un rischio superiore. E negli ultimi 15 anni, quante volte abbiamo sentito parlare della crescita cinese? Peccato che non fosse la crescita degli utili delle aziende quotate in borsa.
Quando si parla di emergenti occorre fare quindi attenzione a parlare di crescita: perché quella che sentiamo sbandierare sui media è spesso molto diversa da quella a cui siamo interessati come investitori. E soprattutto dobbiamo riflettere sul fatto che la qualità del management e una buona corporate governance sono fattori più importanti rispetto alla crescita del paese in cui opera l’azienda.
“Non è quello che non sai a metterti nei guai, è quello che dai per scontato ma non è vero.” (Mark Twain)
Bibliografia
Swensen, David F.. Unconventional Success. A Fundamental Approach to Personal Investment. Free Press, 2005.
Schroders. GDP and earnings growth in emerging markets – a loose connection. September, 2017.