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Scopri come Page e Brin utilizzano i modelli mentali per guidare l’innovazione di Google.
“Google non è un’azienda convenzionale. E non intendiamo diventarlo”. Questa è la frase con cui Larry Page e Sergey Brin aprono la Founder’s IPO Letter scritta nel 2004 in occasione della quotazione in borsa di Google. Nate prendendo ispirazione dalle pillole di saggezza che Buffett dispensa nei report annuali di Berkshire Hathaway, le lettere dei Fondatori che Page e Brin hanno deciso di scrivere ogni anno a partire dalla quotazione delineano in maniera chiara i principi e le linee guida che ispirano le scelte effettuate da Google.
Lungo periodo e approccio probabilistico
La lettera del 2004 inizia subito con un avvertimento per gli azionisti: Google è focalizzata sul lungo periodo, anche a costo di sacrificare i risultati finanziari a breve termine. In un settore caratterizzato da cicli brevi, grande volatilità e difficoltà previsionale, Page e Brin ritengono che l’unico approccio vincente sia quello probabilistico: Google non esita ad investire in progetti ad ampio respiro, anche a carattere speculativo, che possono essere caratterizzati da rendimenti immediati negativi e da elevate probabilità di fallimento ma che possono potenzialmente portare a ritorni molto elevati. La capacità di perseguire con costanza queste iniziative, anche in segmenti molto distanti dal core business, è considerata da Page e Brin come requisito fondamentale per mantenere il successo nel lungo periodo. Il modello adottato da Google è quello di mantenere costantemente una strategia lunga in opzioni, finanziata dalla redditività dei business core, sapendo che prima o poi qualcuna di queste opzioni andrà pesantemente “in the money” generando ritorni esponenziali (per capire il perchè una strategia “lunga opzioni” è vincente in un contesto incerto leggi Il ruolo della fortuna).
“Un management distratto da una serie di obiettivi di breve periodo è come una persona a dieta che sale sulla bilancia ogni mezz’ora.” (Larry Page)
Waymo, la società che si occupa dello sviluppo delle macchine a guida autonoma, Project Loon che ha l’obiettivo di portare l’accesso ad internet ai 5 miliardi di popolazione non ancora connessi utilizzando palloni ad elio, Life Science che sta sviluppando delle lenti a contatto in grado di controllare il livello di glucosio nei diabetici, sono solo alcuni esempi del portafoglio attuale di scommesse su cui Google sta puntando negli ultimi anni (non a caso i fondatori le chiamano “other bets”).
Guardando al passato recente, Android è l’esempio più fulgido di una scommessa di lungo periodo che si è rivelata vincente: ci sono voluti circa tre anni (dal 2005 al 2008) per portare sul mercato il primo cellulare e altri tre anni prima che il sistema operativo raggiungesse una massa critica. Molto simile è stato il percorso di Chrome e Youtube, progetti con risultati incredibili che arrivano da lontano.
Per preservare questo approccio pionieristico ed evitare quella che Eric Schmidt, quando era CEO di Google, ha definito “la sindrome della grande azienda”, cioè la tendenza ad accontentarsi, rallentare, favorire i processi rispetto alle idee, Page e Brin nel 2015 hanno deciso di trasformare Google, creando una struttura con una holding denominata Alphabet. Le “other bets”, che fino a quel momento erano divisioni operative all’interno di Google, sono diventate società indipendenti con un proprio CEO. L’obiettivo è quello di esaltare lo spirito di iniziativa e di innovazione dei diversi manager lasciandoli liberi di focalizzarsi sullo sviluppo dei prodotti in una struttura più snella e con un più chiaro livello di accountability.
Focus sul prodotto
Quando Page e Brin fondarono Google, come naturale evoluzione di un progetto di ricerca all’università di Stanford, non avevano nessuna esperienza di business e adottarono di conseguenza un approccio piuttosto naive: niente business plan, nessuna strategia finanziaria complicata ma pochi semplici principi, primo fra tutti quello di creare grandi prodotti che potessero migliorare la vita degli utilizzatori. Il ragionamento era il seguente: se sviluppiamo prodotti significativamente migliori di quelli esistenti, che possono avere un impatto importante sulla vita di milioni di persone, poi troveremo sicuramente il modo di monetizzarli in una fase successiva. Questo principio è rimasto immutato nonostante la crescita esponenziale dell’azienda, ed è stato il faro che ha guidato tutte le principali scelte strategiche compiute da Google dal 1998 ad oggi.
Come ben spiegato da Eric Schmidt e Jonathan Rosenberg in How Google Works, la scelta di porre un focus quasi esclusivo sullo sviluppo prodotti si è rivelata vincente perché i cambiamenti tecnologici hanno completamente stravolto il contesto competitivo. In particolare, tre fattori sono diventati oggi esponenzialmente più disponibili rispetto al passato: informazione, connessione e capacità computazionale. Gli effetti sono stati disruptive per tutti i settori in cui l’informazione gioca un ruolo determinante: gli incumbent hanno visto un quasi totale abbattimento delle barriere all’entrata e un’erosione istantanea dei vecchi vantaggi competitivi.
In questo contesto, l’eccellenza del prodotto acquista un valore chiave, superiore rispetto al controllo dell’informazione, della distribuzione o ai budget di marketing. Infatti, mai come oggi i consumatori sono nelle condizioni di informarsi o di effettuare scelte alternative: in passato le aziende potevano trasformare prodotti mediocri in successi commerciali semplicemente grazie a strategie di marketing e al controllo della distribuzione. Oggi non è più così. Nel 2001, commentando il passaggio di potere dalla produzione alla distribuzione, il guru aziendale Peter Drucker ipotizzò che lo step successivo sarebbe stato quello dalla distribuzione al consumatore a seguito del pieno accesso all’informazione: ed è proprio quello che sta succedendo.
“Nel vecchio mondo si dedicava il 30% del tempo a sviluppare un grande servizio e il 70% del tempo a promuoverlo. Nel nuovo mondo è il contrario.” (Jeff Bezos)
“I nostri clienti ci sono fedeli, almeno fino al secondo in cui qualcun altro gli offre un servizio migliore.” (Jeff Bezos)
Il secondo fattore critico è stato il significativo accorciamento dei cicli di prodotto: lo sviluppo tecnologico ha ridotto significativamente i tempi ed i costi per sviluppare e testare nuove soluzioni. Piccoli gruppi di ingegneri, ricercatori, designer possono costruire in poco tempo prototipi e testarne velocemente l’efficacia: anche in settori più tradizionali la tecnologie digitali e 3D hanno reso molto più semplice il processo di sviluppo. La competizione sul prodotto è destinata ad incrementare e uno dei fattori chiave per generare prodotti eccellenti è rappresentato dalla velocità di esecuzione.
“Lo sviluppo dei prodotti è diventato un processo più veloce e flessibile, dove prodotti radicalmente migliori non nascono sulle spalle dei giganti ma sulle spalle di innumerevoli iterazioni.” (Eric Schmidt)
Le regole dello sviluppo prodotti
Quando si parla di sviluppare nuovi prodotti o servizi, Page adotta una regola molto semplice definita test dello spazzolino (“toothbrush test”): devono avere un impatto tale che numero elevato di persone sentano il bisogno di utilizzarle almeno una o due volte al giorno (pensate a Google search, a Gmail o YouTube).
Inoltre è fondamentale individuare quale sia il giusto contesto in cui innovare: per Google le opportunità migliori si trovano in mercati che sono o sono destinati a diventare molto grandi e in cui sono già attivi numerosi competitor ma dove il progresso tecnologico è più lento del potenziale per mancanza di focus dei player esistenti. Non si va alla ricerca di “greenfield” con assenza di competizione: il fatto che alcuni mercati siano ancora “vuoti”, significa probabilmente che non hanno il potenziale per diventare abbastanza grandi. Nel segmento dei motori di ricerca Google non è partita per prima e così Chrome è stata lanciato solo nel 2008 tra lo scetticismo generale di chi si chiedeva se c’era proprio bisogno di un nuovo browser. Anche le macchine autonome sono un segmento potenzialmente enorme e pieno di competitors, ma dove i produttori d’auto tradizionali mancano del focus necessario.
“Individuare aree tecnologiche importanti dove i progressi sono lenti, ma con potenziale per renderli veloci, è l’essenza di Google” (Larry Page)
Ma l’aspetto più importante è la convinzione che affinché un prodotto possa avere successo, è necessario che il suo sviluppo sia incentrato su un “technical insight”, un’intuizione tecnica che definisce l’essenza stessa del prodotto: si tratta di un nuovo modo di applicare una tecnologia o un design che ha l’effetto di ridurre significativamente i costi o incrementare la funzionalità di un determinato prodotto o servizio. L’intuizione tecnica alla base del successo del motore di ricerca di Google fu l’algoritmo PageRank sviluppato da Page e Brin: questo algoritmo migliorava decisamente i risultati prendendo in considerazione anche i link incrociati tra le diverse web page. Il successo di AdWords, il motore pubblicitario che genera buona parte dei ricavi di Google, è basato sull’intuizione che il display degli annunci pubblicitari su ogni pagina dovesse essere basato sul valore informativo per l’utilizzatore e non su quanto fossero disposti a pagare le aziende che mettevano gli annunci. Ogni volta che ci troviamo a sviluppare un nuovo prodotto dovremmo chiederci: qual è l’intuizione tecnica su cui è costruito?
La tensione verso un’intuizione tecnica consente di evitare prodotti “me-too” guidati dalle esigenze attuali dei clienti e di sviluppare soluzioni potenzialmente disruptive che consentono di anticipare i bisogni futuri. L’esperienza di Google segna il passaggio da un mondo in cui lo sviluppo prodotti è basato sulle ricerche di mercato a un mondo in cui il principio guida è la generazione di nuove intuizioni tecniche che vengono immediatamente testate sugli utilizzatori per valutarne l’efficacia.
“Se avessi dato ascolto ai miei clienti, sarei andato alla ricerca di cavalli più veloci.” (Henry Ford)
Focus sulla scalabilità
Page e Brin hanno da subito compreso l’importanza del concetto di scalabilità, come principio fondante del loro business model (per approfondire le proprietà statistiche della scalabilità leggi Le regole della disuguaglianza: un approccio statistico) . Fin dalle fasi iniziali, la crescita è stata privilegiata rispetto alla redditività. Nel 1999 l’azienda generava ancora pochi ricavi ma il Google search aveva già un traffico importante. Mentre i motori di ricerca concorrenti iniziavano a creare i cosiddetti “portali”, riempiendo la pagina principale di contenuti e annunci pubblicitari per massimizzare la redditività, Page e Brin hanno seguito un approccio contrario: hanno preferito continuare ad investire per migliorare l’algoritmo di ricerca e la pagina Google è rimasta sempre pulita e priva di annunci.
Avendo come priorità la crescita, Google condivide generosamente la marginalità quando stipula accordi di partnership e crea piattaforme aperte quando sviluppa nuove applicazioni: l’obiettivo è quello di far nascere ecosistemi dove i partecipanti hanno una proprio interesse a fornire il loro contributo a far crescere ulteriormente la piattaforma.
Android è l’esempio paradigmatico: Page e Brin decisero di mantenere il sistema aperto, condividendone i codici con gli utilizzatori, per creare una piattaforma che potesse essere utilizzata da diversi operatori telefonici e produttori di cellulari, in un settore fortemente segmentato come quello della telefonia mobile. Questa strategia ha consentito di acquisire con grande velocità una massa critica, prima nel comparto telefonico e in seguito anche su altri device: essendo un sistema aperto, Android oggi non è solo presente sui cellulari ma anche nei tablet di Amazon, nei giochi elettronici, nei tapis roulant, nei frigoriferi e così via. Quando molte delle cose attorno a noi saranno collegate ad Internet (“Internet of Things”) non c’è da sorprendersi se Android sarà il sistema operativo di riferimento.
Quando domandarono a Page: “Qual’è il numero di ingegneri che vorresti lavorassero per Google?” Lui rispose: “Un milione!”. Probabilmente non ci è andato molto lontano se si considerano i tecnici di tutte le aziende che stanno lavorando su Android per adattarlo ai propri device o per produrre nuove app.
Equilibrio tra “moonshots” e “roofshots”
Ben consapevoli della teoria dei sistemi complessi, dove una delle regole chiave è l’equilibrio tra attività di esplorazione e sfruttamento (leggi anche Da Darwin a Amazon: le regole del cambiamento), Page e Brin hanno da subito capito l’esigenza di trovare un giusto bilanciamento tra progetti moonshots e roofshots. I moonshots sono progetti “pazzi” in cui l’obiettivo è generare prodotti con miglioramenti “10X” rispetto a quelli esistenti: le macchine a guida autonoma, gli aquiloni per generare energia eolica, internet accessibile in tutte le zone del pianeta con palloni di elio e così via. “Pensare 10X” è una delle linee guida di Google e i progetti moonshots ricevono grande attenzione da parte dei media. Tuttavia Page e Brin sono sempre stati convinti della necessità di mantenere il focus sui business core, attraverso un miglioramento continuo ottenuto con il perseguimento di opportunità 1,3-2X, i cosiddetti roofshots. In Google search si implementano circa 500 miglioramenti ogni anno, più di uno al giorno: è grazie a queste continue piccole variazioni che il motore di ricerca ha mantenuto e anzi incrementato il proprio vantaggio competitivo.
“Mai smettere di cercare nuovi modi per fare il meglio con quello che hai a disposizione.” (Sergey Brin)
Per trovare un equilibrio nell’allocazione delle risorse tra i vari progetti, Brin ha ideato la regola del 70/20/10: il 70% del budget viene destinato ai business core che generano gran parte dei ricavi, il 20% ai quelli emergenti che hanno già ottenuto qualche successo e il 10% ai progetti completamente nuovi che hanno un’elevata probabilità di fallimento ma un payoff potenziale elevato. Questa regola assicura che gran parte delle risorse siano destinate ai settori che guidano la redditività dell’azienda ma salvaguarda anche il fatto che le idee “alternative” abbiano sempre un finanziamento e siano protette da eventuali tagli di budget.
Il 10% del budget per i moonshots è considerato il giusto compromesso: l’obiettivo è infatti anche quello di non investire troppo in progetti nuovi per evitare i problemi derivanti dal confirmation bias cioè la tendenza da parte dei manager a vedere solo il buono in progetti in cui si è già speso tanto: idee da milioni di dollari sono più difficili da uccidere rispetto a quelle da migliaia di dollari. Inoltre, risorse limitate stimolano la creatività e la ricerca di soluzioni originali e alternative.
Per favorire la creatività e l’iniziativa dei singoli, viene inoltre applicata la regola del 20%. Ogni dipendente può utilizzare il 20% del proprio tempo per farsi promotore di progetti nuovi, anche in segmenti completamente diversi da quelli della propria occupazione principale. Per dare inizio ad un “progetto 20%” occorre coinvolgere altri colleghi che siano disposti ad impiegare il loro 20% con lo stesso obiettivo: questa regola favorisce un clima di grande contaminazione di idee all’interno dell’azienda. Il vantaggio, non è solo quello favorire lo sviluppo di nuove applicazioni operative importanti, ma anche quello di motivare ogni ricercatore, lasciandolo libero di prendere l’iniziativa, di sperimentare, dandogli la possibilità di collaborare con colleghi di gruppi differenti con cui altrimenti non potrebbe interagire. Google non è stata la prima azienda ad utilizzare questa strategia: già nel 1948, 3M introdusse la “soluzione 15%” favorendo progetti su iniziative personali, il più efficace dei quali portò allo sviluppo dei Post-it. Del resto Page e Brin, parlando della regola del 20% in un Ted Talk del 2004, affermano come gran parte delle scoperte accadono quando le persone, durante il loro tempo libero, si dedicano alle loro passioni: fu così per Mendel, professore delle superiori, che scoprì le leggi della genetica durante il suo 20%.
La “regola del 20%” ha funzionato talmente bene, che a partire dal 2016 Google ha fatto un passo ulteriore creando il programma Area 120: i ricercatori che sviluppano i migliori “progetti 20%”, hanno la possibilità di lavorarci al 100% del loro tempo (100 + 20 = 120!). Il programma, che nel 2016 ha selezionato 14 progetti su un totale di 300 applicazioni, fornisce risorse, budget e autonomia per mettere questi ricercatori nelle condizioni di perseguire i loro progetti al massimo delle possibilità, come se fossero delle vere e proprie start-up all’interno dell’azienda.
“La possibilità di fare la differenza è la più grande motivazione che ciascuno di noi possa avere.” (Larry Page)
Anche a livello di struttura organizzativa Google segue una filosofia che favorisce la responsabilità e l’auto-organizzazione dei team: gli ingegneri sono suddivisi in piccoli gruppi di lavoro (“la regola delle due pizze” di Bezos docet) e ai manager viene applicata una versione modificata della regola del sette: se in molte aziende convenzionali si fissa a sette il numero massimo di riporti per poter aver un maggiore controllo sul business, in Google sette rappresenta il numero minimo. Questa interpretazione della regola del sette favorisce strutture organizzative più piatte ed esalta la libertà di azione dei dipendenti, in quanto i manager, con così tanti riporti, non hanno tempo per occuparsi del micromanagement e sono costretti a focalizzarsi sul contesto.
Il processo induttivo: ship and iterate
Lo sviluppo prodotti in Google è una versione moderna e accelerata del ragionamento induttivo: la parola d’ordine è “ship and iterate” (leggi anche Il ragionamento induttivo: l’esperienza di Starbucks e Netflix). Nessun prodotto sarà perfetto all’inizio e non si avrà mai tempo per aspettare che lo diventi (come diceva Voltaire “il perfetto è nemico del buono”): per questo occorre lanciarlo (ship) non appena possibile, verificare come funziona e iniziare un processo di miglioramento incrementale continuo (iterate). Abbiamo già visto come Google apporti circa 500 modifiche all’anno sul motore di ricerca, che vengono continuamente testate sugli utilizzatori.
Il modello “ship and iterate” è accompagnato da un meccanismo di allocazione degli investimenti che viene definito feed the winners/starve the losers: le risorse vengono incrementate sui prodotti che dopo il lancio acquistano progressivamente “momentum” mentre vengono tagliate su quelli che non decollano, indipendentemente dagli investimenti che sono stati effettuati in precedenza. Questa strategia consente di evitare le distorsioni connesse al principio dei sunk cost (per approfondire leggi Sunk cost: la tua vita comincia adesso).
Anche i piani di marketing seguono la stessa filosofia. Il modello “ship and iterate” prevede il lancio di prodotti con funzionalità ancora non completamente esplorate che verranno progressivamente migliorate con il tempo. Per questo motivo gli investimenti in marketing e PR sono mantenuti al minimo nella fase iniziale per evitare che si crei troppa attenzione su prodotti che potrebbero alla prova dei fatti non rispettare le attese. Ad esempio Chrome fu lanciato completamente sottotraccia nel 2008, senza nessun investimento di marketing: guadagnò momentum solo grazie alla sua superiorità tecnica. Successivamente, quando arrivò a circa 70 milioni di utilizzatori, il team decise di accelerare la spinta con un investimento marketing e una campagna pubblicitaria. Questa decisione però fu presa solo dopo che il prodotto aveva dimostrato di essere un “vincente”.
Gestire i fallimenti
Un modello di business come quello di Google, improntato all’innovazione e così aggressivo nello sviluppo di nuovi prodotti richiede una particolare attenzione nella gestione degli inevitabili fallimenti di una buona parte delle idee che vengono esplorate.
“Per innovare devi imparare a gestire bene il fallimento.” (Eric Schmidt)
In prima battuta, il meccanismo di allocazione feed the winners/starve the losers consente di gestire il rischio, limitando gli investimenti e quindi le perdite su progetti che non stanno decollando e quindi più a rischio di fallimento. Inoltre se un progetto fallisce, viene analizzato e scomposto nelle sue parti perché c’è quasi sempre qualche intuizione tecnica che può essere riutilizzata in progetti futuri: l’obiettivo è quello di imparare da ogni fallimento evitando di sprecare il lavoro già fatto. Infine i componenti del team “fallito” non vengono mai puniti, anzi vengono riallocati su altri progetti interessanti. Si vuole assolutamente evitare che si diffonda una cultura conservativa che rinunci all’esplorazione per paura di fallire.
Il compito del management quindi non è tanto quello di evitare che alcuni progetti possano fallire, ma quanto quello di creare un contesto resiliente in cui gli inevitabili fallimenti vengono gestiti, non fanno danni, ma anzi costituiscono delle occasioni di apprendimento, una caratteristica allineata con la definizione di Antifragile di Taleb.
Il modello psicologico: “don’t be evil”
Forse l’aspetto più sottovalutato ma più determinante a cui hanno lavorato Page e Brin è il modello psicologico di Google: il mantra dell’azienda è “migliorare la vita di quante più persone possibili, fare del bene, anche se questo significa rinunciare a vantaggi finanziari di breve periodo”. L’obiettivo è quello di essere amati dai propri utilizzatori ed evitare l’invidia, aspetto che secondo Charles Munger è una delle chiavi più importanti per un successo sostenibile.
Tutte le decisioni strategiche e lo sviluppo dei prodotti tengono conto di questo principio: quasi tutti i servizi forniti sono gratuiti perché sono supportati dalla pubblicità; i risultati del search non sono influenzati dai pagamenti degli inserzionisti; le pubblicità sono ben evidenziate, correlate alla ricerca effettuata e non invasive; vige una totale assenza di barriere all’entrate e all’uscita (c’è un team che è 100% dedicato a rendere piacevole l’esperienza dell’uscita dai prodotti); quando Gmail venne lanciata offriva 1GB gratuito rispetto ai 2/4 MB dei competitors; moltissime applicazioni vengono sviluppate per migliorare l’esperienza dello user senza nessun ritorno finanziario di breve periodo; Android è un sistema aperto e flessibile (vs iOS completamente chiuso). Potremmo continuare a lungo con questi esempi, senza trascurare la decisione di uscire dalla Cina perché poneva troppi vincoli all’algoritmo di ricerca e quindi non consentiva risultati oggettivi.
Questa scelta di “essere buoni” ha pagato enormi dividendi. Non solo in termini di fedeltà degli user, ma anche in relazione all’attenzione da parte dei media e dei regolatori. Microsoft ha combattuto per anni battaglie legali di tutti i tipi, è stata odiata per il suo “regime di monopolio” e anche nei confronti di Jobs l’atteggiamento dei media è stato tutt’altro che tenero. Al contrario Page e Brin hanno operato per tanti anni sottotraccia, e solo recentemente, nell’ottobre del 2020, il dipartimento di giustizia americano ha iniziato ad accusare Google di monopolio nel search e nel search advertising.
Conclusioni
La prossima sfida di Page e Brin si chiama Intelligenza Artificiale, segmento su cui Google ha già un notevole vantaggio rispetto ai competitor. Gli algoritmi di machine learning sono già utilizzati in centinaia di servizi: nel riconoscimento vocale, nel traduttore simultaneo, nell’assistente virtuale, nella ricerca delle immagini, nel direzionamento attraverso il traffico in Google Maps, nei sistemi di guida autonoma di Waymo, nei sottotitoli dei video di YouTube e potremmo continuare. E le possibili applicazioni future sono praticamente infinite.
Dobbiamo quindi sperare che Page e Brin continuino a comportarsi bene e a “fare cose buone per il mondo”. Chi non è molto sereno sul tema è Elon Musk: se il suo sogno è portare la civiltà su Marte, pare che l’incubo che lo tiene sveglio la notte sia quello in cui Page “costruisce un esercito di robot dotati di intelligenza artificiale che distruggono l’umanità”. E il fatto che Page sia un suo buon amico ed una brava persona non serve a farlo stare più tranquillo. E’ anche vero che Musk è un tipo particolare e ha letto tanti libri di fantascienza.
Bibliografia:
Page, Larry e Brin, Sergey. Founders’ Letter. 2004 – 2019.
Schmitdt, Eric e Rosenberg, Jonathan. How Google Works. Grand Central Publishing, 2017.
Vance, Ashlee. Elon Musk. Virgin Books, 2016.